Antonio Rizzo: «Mi ricordo di un giorno di scuola. Quaderno 5. Storia della lingua italiana»

Prima parte: «Ab initio»
A questa domanda Antonio Rizzo risponde con «C’era una volta»... come nelle fiabe, perché quello che fa lui è raccontare, dire la storia non di un principe e di una principessa, ma di una regina nata e cresciuta nella penisola dei cinque mari, dove anche lui è nato e cresciuto e che ama con un sentimento manifestato in tutte le forme culturali e artistiche, perché la dipinge e la canta in una poesia vera e seria, in una prosa poetica dei suoi ricordi non solo da allievo e da adolescente studioso, da studente, ma da persona matura, da vero intellettuale. Egli ha capito che parlare di letteratura o di arti visive non si fa che legando tutti i filoni artistici, per creare un ambiente propizio che si chiama cultura e che può essere presentato in via orale o scritta solo con l’aiuto della lingua. E lui lo fa adesso, parlando di questa lingua ricca di dialetti e di parlate, di forme linguistiche speciali, idioletti e varietà a fondo principale antico sul quale si sono sovrapposte nel tempo le forme neologiche o dei vari registri, una lingua – la più bella lingua delle arti: architettura, scultura, pittura, musica e letteratura – sorta dal latino, da cui sono derivate le altre ‘sorelle’ romanze.

Dopo averci regalato quattro volumi, pubblicati dall’Associazione degli Italiani di Romania (RO.AS.IT) e costruiti usando lo stesso metodo, didattico ma anche storico, filologico e pure filosofico, che spiega in ogni capitolo dei singoli libri il perché della corretta lettura delle opere letterarie studiate in scuola (nel primo), delle novità stilistiche e contenutistiche del capolavoro di Dante nel suo viaggio nell’Inferno (nel secondo), del come decifrare le metafore nella poesia crepuscolare ed ermetica del Novecento, di Quasimodo e Ungaretti (nel terzo) e infine del come comprendere la storia del romanzo più amato dagli italiani, I Promessi Sposi di Manzoni (nel quarto), l’autore chiude un cerchio cognitivo trattando l’argomento fondamentale della scienza dello scrivere che è la storia della lingua. Tale disciplina (perché nelle facoltà di lingue romanze che includono lo studio dell’italiano, questa è una materia curriculare) analizza la lingua, o le lingue in cui gli autori da tutti i tempi hanno scritto le loro opere artistiche e scientifiche.
Una decisione difficilmente da prendere e soprattutto da mettere in pratica.
Il prof. Rizzo mette dopo l’indice la Bibliografia, naturalmente in lingua italiana, perché questo libro, come anche i primi quattro, è bilingue – un merito in più perché gli studiosi e di chi ha interesse a conoscere come si è formato e sviluppato l’italiano, potessero leggerlo in entrambe le lingue – e così vediamo che gli autori citati sono i più pregiati linguisti e glottologi, docenti universitari che hanno studiato in prestigiose università italiane e straniere: Francesco De Sanctis, Andrea de Benedetti, Luca Serianni, Pietro Trifone, Giuseppe Antonelli e soprattutto Bruno Migliorini, autore della monumentale Storia della lingua italiana.

Nel libro di Antonio Rizzo, modestamente presentato dall’autore come anche i primi, Mi ricordo di un giorno di scuola (pure se il contenuto di tutti sorpassa il livello delle conoscenze del curriculum liceale, essendo piuttosto da includere nella materia delle facoltà di lingue, specialmente romanze) si parte dall’idea di dare una risposta, o meglio più risposte alle domande logiche che è possibile formulare: «Chi siamo (noi, italiani), da dove veniamo e dove andiamo?» Si tratta dunque di una presentazione in grande della lingua italiana, personalizzata, comprendente tutto l’albero suo genealogico, partendo da più di duemila anni fa. Il volume, che gode anche di una prefazione esauriente, firmata dalla docente universitaria Nicoleta Silvia Ioana, e di una altrettanto ricca Premessa, firmata dall’autore, è formato da cinque capitoli che analizzano storicamente il fenomeno linguistico italiano da quando il latino ha generato le lingue romanze.
Dopo i primi documenti che attestano la nascita di questa lingua (il graffito di Commodilla, i Placiti Cassinesi, l’iscrizione della basilica di San Clemente), seguono i versi d’amore di Ravenna e la prima poesia religiosa di San Francesco, il Cantico delle creature.
Ma questo lo sappiamo un po’ tutti, come conosciamo anche l’importanza della scuola siciliana fondata da Federico II di Svevia, alla quale si formarono i primi poeti autori di lirica amorosa (basta a ricordare Jacopo da Lentini, l’inventore del sonetto) che verrà trasmessa ai poeti toscani, come anche i poeti di letteratura religiosa. Nel libro di Antonio Rizzo le novità sono rappresentate dai documenti amministrativi e di vario genere scritti al tempo di questo straordinario re-imperatore che fece dalla sua corte una delle meraviglie dei primi secoli dopo l’anno mille (lo Stupor Mundi), come il Liber Augustalis (o le Costituzioni di Melfi), il De arte venandi cum avibus (scritti di ornitologia, allevamento, addestramento e caccia, diverso dai bestiari, libri di mitologia, teologia e superstizione) e altri.

Si accenna anche alla fondazione della prima Universitas studiorum, il 5 giugno 1224, a Napoli, prima di quella di Bologna, di cui era anche più laica, per non parlare dei documenti che attestano la costruzione dei tantissimi castelli normano-svevi sparsi che si vedono tuttora nelle belle regioni meridionali, in Sicilia, Calabria, Puglia e Basilicata. A pagina 163 l’autore ci invita a cercare su Google le immagini di questi castelli elencati: di Augusta, Bari, Barletta, Bisaccia, Bisceglie, Branciforti, Brindisi, Monte Sant’Angelo, Castroreale, Gela, Milazzo, Oria, Patti, e tanti ancora. La pagina seguente è dedicata a due bellissime immagini di Castel del Monte, ad Andria, provincia di Bari. Dopo molti aforismi citati seguono le spiegazioni date sulla nascita della scuola poetica siciliana, formatasi dopo la cacciata dal sud della Francia dei Catari Albigesi, considerati dal Papa, eretici e dopo le crociate, quando in Europa migrarono i trovatori provenzali e i Minnesänger, i primi poeti cantanti d’origine a volte pure aristocratica. Presentati i poeti siciliani con le loro poesie più belle (Meravigliosamente di Jacopo da Lentini e Rosa fresca aulentissima di Cielo d’Alcamo), si analizzano la lingua di questi e l’importanza avuta nell’evoluzione dell’italiano poetico. Segue la presentazione della scuola toscana, dopo la morte dello Stupor Mundi, con altre immagini straordinarie: la mummia di Federico II disegnata da Francesco Danieli nel 1781, il prezioso sarcofago del re nella Cattedrale di Palermo, la corona del Sacro Impero Romano (esposta a Vienna) e pure la spada imperiale da cerimonia di Federico II. Altra bellissima immagine è dal Codex Manesse, seguita da altre tre-quattro pagine comprendenti frammenti dalle più belle poesie siciliane, con le dovute spiegazioni.

Il IV Capitolo è destinato a Dante e al suo volgare rivoluzionario. Sono accennate le imperfezioni stilistiche, lessicali e grammaticali della poesia siciliana, la cui lingua era piena di prestiti dalla lingua d’oc (il provenzale occitanico), o dalla lingua dell’oïl (il francese oitanico) e tutta in un’analisi, la prima molto competente che il grande poeta fiorentino fece nel De vulgari eloquentia. Parlando dei dialetti italiani, delle parlate Municipali, dei «campanilismi» (le lingue usate dai singoli stati di un’Italia frantumatissima prima della sua unificazione statale nell’Ottocento delle rivoluzioni europee), Dante farà la grande domanda a carattere storico: e dunque quale volgare scegliere?
La mappa di pagina 194 aiuta a comprendere meglio la divisione dei volgari del versante adriatico e del versante tirrenico e poi di quello lungo gli Appennini. Ci sono pagine dedicate all’analisi delle singole regioni con le loro parlate, fino alla Toscana, culla di quella lingua che Dante e poi Petrarca e Boccaccio fecero diventare lingua per eccellenza della poesia nella loro bella e ricca Firenze. Analizzate le forme lessicali e poetiche delle loro opere, si riconosce il carattere di «lingua d’arte», ovvero quella in cui Petrarca scrisse il suo Canzoniere, lingua che verrà riconosciuta come la più autorevole per la lirica del secolo seguente e di quelli a venire, secondo il giudizio di Pietro Bembo, nelle Prose della volgar lingua del Cinquecento. A Boccaccio l’autore dedica uno spazio generoso, nell’analisi della lingua del Decameron, in cui le storie del romanzo sono rese ancor più vive con l’aiuto di illustrazioni fatte da Gino Boccasile (alle pagine 1221-1222).

Alla «normazione» dell’Umanesimo l’autore dedica il capitolo VII, che inizia con l’immagine dell’uomo vitruviano di Leonardo da Vinci (nelle gallerie dell’Accademia di Venezia) e con quella del primo libro stampato, la Bibbia di Gutenberg, perché questo secolo è stato quello delle scuole ed accademie, dei circoli, della stampa (di Aldo Manuzio, a Venezia), delle armi da fuoco e della questione della lingua che ha cercato di imporre di nuovo il latino, come lingua unica per gli umanisti della prima parte del Quattrocento: Lorenzo Valla, Marsilio Ficino, Leon Battista Alberti e altri. Viene accennato il grande contributo portato allo sviluppo dell’umanismo fiorentino da Lorenzo de’ Medici, famoso poeta, principe e mecenate. «La svolta rinascimentale» si apre con la splendida pittura Zeus scaglia le folgori di Giulio Romano, nel Palazzo Te di Mantova, che serve, come altri affreschi del genere, a risvegliare i sentimenti d’ammirazione dell’antichità pagana, greco-romana, come epoca di fioritura delle arti alla quale i nuovi artisti si devono ispirare.
Il Cinquecento è il secolo di Bembo, Trissino e Machiavelli, grandi teorici della lingua chiamata sin da Dante «il volgare», che alla fine del Quattrocento aveva sostituito il latino. Viene esaminata la lingua delle corti, chiamata da Bembo e da Castiglione «cortigiana», che accoglierà nella grafia, nella morfologia, nella fonetica e nel lessico elementi latini. A pagina 1155 si vedono i ritratti di Pietro Bembo – dipinto da Tiziano – e di Aldo Manuzio. Il successo di Petrarca è dovuto anche alla pubblicazione del Canzoniere (si veda una miniatura del poeta fatta da Matteo da Volterra, in copia, a pagina 1156). I contributi di altri autori presenti nel dibattito della storia della lingua (Castiglione, Trissino, Niccolò Machiavelli e Ludovico Ariosto) godono anche della presenza dei loro ritratti, eseguiti da Raffaello, Vincenzo Catena, Santi di Tito e Tiziano. Ludovico Ariosto, considerato nella storia della letteratura italiana ed europea uno degli autori più celebri e influenti del Rinascimento, l'iniziatore della commedia «regolare» con le sue opere Cassaria e Isuppositi,ha creato con l’Orlandofurioso uno dei poemi più importanti della letteratura cavalleresca. È considerato il codificatore della favola romanzesca e tra i massimi esponenti e cantori di Ferrara legati al rinascimento estense con Matteo Maria Boiardo e Torquato Tasso, fu un seguace dei precetti di Pietro Bembo sulla fondazione di una lingua nazionale italiana.

Fondata nel 1582-83, l’Accademia della Crusca, che si è occupata dell’uso corretto della lingua, osservandone le variazioni nel tempo e i modelli dei parlanti, resta sempre una delle più autorevoli istituzioni di cultura che riunisce gli studiosi e scienziati di prestigio che vogliono imporre le forme linguistiche giuste, il vero grano, eliminando dal parlare e dallo scrivere la «crusca». Insieme a questa, le altre accademie (Fiorentina, degli Affidati, degli Infiammati, degli Intronati, dei Lincei e del Cimento) hanno elaborato lungo gli anni studi, dizionari ed enciclopedie che servono tuttora al consolidamento dell’italiano moderno, come lingua artistica e scientifica. I commenti dell’autore sulla loro attività sono arricchiti dalle immagini delle sale contenenti tantissimi libri, che insieme ai giornali e ai dibattiti tra i linguisti hanno aiutato il volgare a consolidarsi come lingua ufficiale in vari campi.
Il Seicento è stato il secolo del barocco e del manierismo nella pittura e nella scultura con Gian Lorenzo Bernini, Francesco Borromini e Caravaggio, nella musica con Claudio Monteverdi, Domenico Scarlatti e Antonio Vivaldi; viene presentato con dettagli contenutistici sulla nuova lingua, ma anche con bellissime immagini come i ritratti degli artisti e copie delle loro opere. In questo secolo, che è anche di Galileo Galilei, lo scienziato che insieme a Giordano Bruno ha rivoluzionato insieme la fisica, la matematica e l’astronomia, il volgare fiorentino è riconosciuto secondo le regole bembiane come lingua illustre degna di essere da tutti usata nello scrivere e nel parlare ed è facile capire perché l’Accademia della Crusca pubblica a Venezia nel 1612 il suo Vocabolario. Per la seconda volta, dopo l’avvento dell’opera di Dante, il paese frantumato in tanti piccoli stati, sta per unificarsi linguisticamente. E questa vicenda continuerà. La seconda edizione di questo vocabolario, che ignorava i contributi lessicali dalle altre parlate, verrà arricchita da nuovi lemmi dopo l’entrata nel gruppo di lavoro anche di non letterati, cioè di uomini di scienza, come Galileo Galilei, il cui contributo fu essenziale nella lingua colta, autore di opere conosciutissime come il Saggiatore e il Dialogo sopra due massimi sistemi del mondo. Qui, come anche nel caso di altre opere, le citazioni vengono tradotte nell’italiano attuale, un altro pregio del libro di Antonio Rizzo.

Tornando alla letteratura, l’autore evoca anche la figura del poeta Giovan Battista Marino, che con il suo famoso poema Adone, ispirato alla mitologia greca, riesce a dimostrare che lo scopo della nuova poesia è di suscitare meraviglia («È del poeta il fin la meraviglia»), e le sue digressioni di virtuosismo poetico ricordano, come accenna l’autore, che alla stessa mitologia s’ispiravano anche i pittori della fine di questo secolo: Tiziano, Paolo Veronese, Antonio Canova (certamente, con le belle immagini dei loro capolavori).
Molto interessante è l’evocazione del cardinale, politico e diplomatico italiano Giulio Raimondo Mazzarino (col nome francesizzato di Jules Raymond Mazarin), che fu primo ministro e consigliere di Luigi XIV, dopo Richelieu. Il suo Breviario dei politici, raccolta di consigli, regole, massime, aforismi, la cui lettura è considerata dal dott. Rizzo «affascinante e piacevolissima», viene presentato con citazioni tradotte, come sempre, nella lingua moderna.
E prima di passare al secolo XVIII (il Settecento), nel libro viene presentata anche la famosissima commedia dell’arte, che nella forma popolare, orale, prima e poi nella sua trasposizione scritta delle commedie di Goldoni – trasformando il teatro a canovaccio in teatro a carattere, con personaggi veri e senza maschere – ebbe il merito di mettere in contatto i dialetti (prima di tutto il veneziano, poi il bolognese, il bergamasco e anche altri) con il volgare che si era con tanti sacrifici formato. L’autore osserva che l’umorismo creato da queste commedie all’italiana, che usano un lessico nel mondo del teatro e del cinema incomprensibile ancora oggi a uno spettatore romeno (e a qualsiasi spettatore straniero) arriva a una comicità che non può essere tradotta. Da questa «mescidazione» come viene chiamata dai linguisti (cioè mescolanza od osmosi linguistiche) risulta l’importanza della lingua dialettale, così ricca in modalità espressive. Sono ricordati gli autori dialettali Giulio Cesare Croce, Adriano Banchieri e Giambattista Basile, con le loro opere, come il famoso Bertoldo e Bertoldino, e beninteso il filosofo Benedetto Croce, autore del Pentamerone, definito come «il più antico, il più ricco e il più artistico tra tutti i libri di fiabe popolari».

Il Capitolo X si apre con le premesse geopolitiche necessarie, come sottolinea il prof. Rizzo, nel secolo XVIII, con «tempi nuovi e nuove idee.» A pagina 2201 è presentata la mappa d’Italia del 1700 con gli stati italiani: i Ducati di Savoia, di Toscana, lo Stato Pontificio, le Repubbliche marinare di Genova e Venezia e con il Regno delle Due Sicilie. Si paragona la situazione dell’Italia con quella della Francia (citando Migliorini) per arrivare alla giusta conclusione che «le divisioni fra stato e stato ostacolano la circolazione delle persone e delle idee», realtà storica, socio-politica alla quale si deve il caso particolare della storia della lingua italiana che con difficoltà si riesce a far diventare un’entità complessiva dal punto di vista grammaticale e lessicale. Ci sono pagine dedicate all’illuminismo francese, europeo e naturalmente italiano, in un secolo in cui composero i grandi poeti Pietro Metastasio, Vittorio Alfieri, Ugo Foscolo. Il contributo delle loro opere liriche e narrative è stato sostanziale per l’evoluzione della lingua, come anche quello di Melchiorre Cesarotti, che con la sua grammatica è stato un «anticipatore della teoria sociolinguistica». Legata in certa misura al giornalismo, la lingua del Settecento mette in circolazione neologismi ed europeismi, il cui ruolo è molto importante come anche quello delle traduzioni (dal francese soprattutto) come sosteneva Cesarotti. Su due pagine si danno esempi di prestiti e calchi linguistici, si parla della derivazione.
Un’altra mappa dell’Italia dell’Ottocento ci introduce nella storia delle guerre: l’invasione di Napoleone Bonaparte, le Accademie del Cimento e del Disegno e l’azione militare di Giuseppe Garibaldi sono gli argomenti trattati in questo capitolo. Le figure di Camillo Benso conte di Cavour e di Vittorio Emanuele II, diventato il primo Re di un’Italia unita sono evocate per introdurre il tema della lingua del Primo e del Secondo Ottocento con numerosi esempi di testi (dei puristi, classicisti, dei neotomisti), citato di nuovo Bruno Migliorini, per arrivare alla conclusione che al grande dibattito sulla lingua italiana poteva partecipare un quinto della popolazione, mentre gli altri quattro non potevano farlo, essendo analfabeti. I grandi scrittori del secolo: Vincenzo Monti, Ippolito Pindemonte, Pietro Giordani, Giacomo Leopardi, che oltre a comporre opere straordinarie (come Leopardi, uno dei più grandi poeti universali), hanno preso posizione in questo dibattito sulla nuova lingua italiana. Al classicismo di Giordani e anche di Leopardi che avevano una vera avversione per i dialetti, considerati degli ostacoli per la lingua comune, i romantici risposero con l’affermazione che i dialetti erano lingue vive e vere, necessarie e da considerare nella rappresentazione della cultura nazionale.

Ma più di tutti loro colui che doveva firmare il secondo certificato di nascita di questa lingua fu lo scrittore, poeta e drammaturgo Alessandro Manzoni, il quale con tutta la sua opera ma specialmente con I Promessi sposi, il romanzo storico romantico, il suo capolavoro, ha aggiunto nuovi lemmi e nuove espressioni ‘sciacquando’ la lingua nel toscano fiorentino, diventando dopo le tre corone del Trecento – Dante, Petrarca e Boccaccio – il quarto padre della lingua italiana. Lo scrittore ha deciso di «abbandonare l’italiano della prosa tradizionale a favore di un italiano più attuale e omogeneo, fondato sul parlato vivo e colto della Firenze a lui contemporanea». Senza una capitale politica, in un paese frantumato in tantissimi stati in cui le popolazioni parlavano dialetti diversi, Manzoni ebbe il geniale intuito (come Dante con il volgare, nel suo tempo) di sperimentare la lingua scritta in un genere letterario (quello del romanzo) che insieme al teatro potesse avere espressività perché naturale e verosimile. Scritto e riscritto, il suo romanzo, «il più amato dagli italiani» (come lo chiamò l’autore stesso nel suo quaderno precedente) ebbe grande successo in Italia e anche all’estero. Il prof. Rizzo accenna anche allo scandalo prodotto dalla pubblicazione di questo romanzo che svelava la cruda realtà del suo paese descritto nel Seicento, quando il nord era sotto il dominio spagnolo, perché l’autore denunciava ingiustizie sia nel mondo laico sia in quello religioso (fatto per il quale la Chiesa lo proibì fino al primo decennio del XX secolo). Ma con il suo romanzo Manzoni aveva posto le basi dell’unificazione linguistica del paese.
Alla pagina 1256 viene presentata la mappa del Regno d’Italia nel 1861 (con i territori indipendenti dello Stato Pontificio e il Regno Lombardo-Veneto. Ci sono brani dedicati alla figura di Massimo d’Azeglio – politico, scrittore e pittore che ha sostenuto dopo l’unità del paese l’idea di riformare anche gli italiani, il che significava farli studiare, dunque usare una lingua nazionale. Però Graziadio Isaia Ascoli, l’autorevole glottologo italiano fu insieme al famoso poeta Giosuè Carducci contro la tesi manzoniana del nuovo italiano fondato sul fiorentino, definendo l’idea dell’autore milanese «una fissazione giacobina, un cieco fanatismo». Il dibattito linguistico è continuato con le posizioni prese sulla questione delle lingue dialettali e della poesia satirica, per primo viene citato Giuseppe Giusti, con la sua raccolta postuma, Versi editi e inediti. Sono menzionati anche altri autori che hanno scritto in dialetto, tra cui Carlo Porta, Giuseppe Gioacchino Belli, Cesare Pascarella Trilussa (pseudonimo di Carlo Alberto Salustri, i cui scritti difficilmente tradotti nell’italiano attuale, sono ancora di difficile comprensione da parte degli stranieri.) Ma con il loro dialetto, con le loro espressioni e parole da «plebaglia», Porta e Belli hanno creato una lingua con forti toni anti-aristocratici, lontana dal classicismo e dal purismo.

Nel secondo Ottocento la voce più importante è quella di Giovanni Verga, il grande scrittore verista siciliano, che nelle sue opere – romanzi e novelle – ha messo espressioni colloquiali e regionalismi siciliani in una lingua elevata, ma non aulica, contribuendo allo sviluppo linguistico in una società in cui la gente, in gran parte analfabeta, usava il dialetto, mentre nello scritto l’italiano elevato.
La mutazione linguistica operata da Pascoli in poesia è stata fatta dall’uso delle parole della vita quotidiana, campestre e dalla botanica con le quali il poeta ha creato nelle sue raccolte liriche Myricae, Castelli di Castelvecchio un lessico naturale e spontaneo. Un altro grande contributo allo sviluppo dell’italiano moderno si deve a Gabriele D’Annunzio, poeta, scrittore e drammaturgo, la cui figura poliedrica (è stato anche soldato combattente in guerra, politico, esteta decadente) resta molto emblematica ma altrettanto di gran valore per la forza con la quale ha trattato argomenti importanti in tutti i generi letterari. Tutte le forme artistiche impiegate, le espressioni, con neologismi e arcaismi, parole rare, retoriche, di una raffinatezza musicale che rende ancora più originali le sue opere, hanno assicurato al poeta un posto speciale nel panorama linguistico italiano. E se con Pascoli e D’Annunzio si erano fatti grandi passi in avanti nella storia della lingua, il romanzo di Manzoni, dopo essere stato condannato dalla Chiesa come anticlericale, veniva imposto come opera di studio obbligatorio nei licei. Come cambia la vita.

Il Capitolo XII – Il Futuro della lingua, la lingua del futuro parla sul velocissimo sviluppo della nazione italiana, sia nell’economia che nella cultura. Classificato come «il secolo breve», questo è anche il secolo «degli Ismi», per citare l’autore, delle correnti. Verismo, Realismo, Impressionismo, Simbolismo, Crepuscolarismo, Decadentismo, Estetismo, Ermetismo, Futurismo, movimenti artistici e culturali nati prima delle guerre mondiali. È presentato Filippo Tommaso Marinetti, autore del Manifesto dei futuristi (corrente definita come non solo provocazione, ma anche «una deflagrazione culturale» che glorificavano l’infinita libertà d’espressione nell’era dell’automatizzazione con conseguenze nell’uso speciale del lessico, nella poetica, ma anche con la comparsa di molti autori stranieri che se ne ispirarono (come Pablo Neruda). «Il flusso di coscienza» dannunziano diventa un genere di prosa nell’opera di Italo Svevo (pseudonimo di Aron Hector Schmitz), autore di tre famosi romanzi (Una vita, Senilità e La coscienza di Zeno), che hanno influenzato anche letterati stranieri come Marcel Proust e James Joyce.  E così si arriva al primo premio Nobel della letteratura italiana, Luigi Pirandello, scrittore e drammaturgo, la cui vasta opera ha contribuito molto alla modernizzazione del linguaggio. Nel libro di Antonio Rizzo, libro che è una storia non solo della lingua, ma anche della letteratura e della vita socio-politica di questo popolo, la storia si ferma al Ventennio fascista «dell’uomo forte» Benito Mussolini, con la sua politica linguistica – l’obbligo di usare l’allocutivo «voi» invece di «Lei» e di tradurre i prestiti (chauffeur / autista, sandwich / tramezzino) e, quando non era possibile, di coniare nuove parole. Si è arrivati a tradurre persino i nomi propri: Louis Armstrong - Luigi Braccioforte, Buenos Aires – Buonaria ecc. Dopo queste impostazioni del Duce in un capitolo come il Costume (da Il Popolo d’Italia), finita la guerra e cambiata la storia, cambiò anche il destino dell’italiano.

Nel sottocapitolo Concludendo... italiano e italiani, l’immagine di un suolo strutturato serve come metafora geologica per spiegare che gli strati di una lingua sono come quelli di un terreno. «Nel corso dei secoli la lingua italiana ha attraversato molte vicende ed è stata sottoposta a molti dibattiti, confronti, studi, analisi, che l’hanno portata dove si trova oggi: allo stadio di lingua flessibile, aperta agli stimoli di altre lingue, però ‘armonica’, dolce».
E questo per merito delle altre discipline affiancate alla linguistica: filosofia del linguaggio, pragmatica del linguaggio, analisi testuale, semiotica, filologia ed etimologia, senza dimenticare la retorica, «strumento espressivo da maneggiare con cura, per non scadere nel lezioso e nel ridicolo».
Con la sua opera postuma, Cours de linguistique générale, del 1916, il linguista svizzero Ferdinand de Saussure, considerato il padre della linguistica moderna, ha chiarito il problema dei processi che governano «l’atto linguistico» stabilendo il rapporto che esiste tra il segno, o il significato e il significante, cioè tra la forma e il contenuto della parola. Introducendo nozioni di diacronia, lingua (langue) e parola (parole), egli ha aperto la strada delle nuove scienze della comunicazione, a partire dalla semiologia (la scienza dei segni).
L’italiano è diventato oggi una lingua parlata (e scritta) da tutti gli italiani, convivendo in armonia con i diversi dialetti. E anche per quelli che la vorrebbero «vassallo all’inglese», essa resta la lingua dell’arte, della musica, della letteratura, come da secoli. (Giuseppe Santonelli).
Amato da tutti gli italiani, come scriveva Edmondo De Amicis, l’autore del conosciutissimo libro dell’infanzia, Cuore, esso è oggi studiato nelle scuole e università nei libri e dizionari scritti da celebri autori come Luca Serianni, Giacomo Devoto e altri, in un mondo in cui i mass media (giornali, tv, cinema) sostituiscono parole italiane con parole straniere, soprattutto inglesi, anche a causa dell’informatizzazione elettronica che ha portato alla globalizzazione innanzitutto del linguaggio.

Nelle ultime pagine del libro di Antonio Rizzo (Appendice) ci sono le tavole cronologiche con Mappe, Postille, Approfondimenti, per sintetizzare la presentazione dell’evoluzione dell’italiano nel tempo e nello spazio: dalla grammatica, la grande sconosciuta e dai «figli» del Vocabolario della Crusca (Zingarelli, Devoto-Oli, Tullio De Mauro e altri), alle aree dove si parla il ladino, ai dialetti italiani e alle lingue romanze. Sono presentati anche gli scrittori che hanno contribuito alla volgarizzazione delle forme dialettali come Eduardo De Filippo e i famosissimi attori Antonio De Curtis (Totò), Massimo Troisi, Lino Banfi e anche Nino Manfredi, Gigi Proietti (morto da poco tempo) e Roberto Benigni (vincitore dell’Oscar come miglior attore nel 1999, premio ottenuto prima da Ana Magnani e da Sophia Loren). Ci sono poi i dati bibliografici sugli autori citati, i più importanti linguisti e glottologi italiani.
Eppure, contro la tendenza attuale di utilizzare l’italiese, il politichese, o burocratese (varianti linguistiche in rapporto al tempo, alla condizione sociale, al mezzo, o alla situazione nell’atto di parlare), l’italiano parlato e scritto continua a evolvere e a imporsi come lingua ricca, ma soprattutto bella, perché, come si usa dire, l’italiano non si parla, ma si canta! E per questa Storia della lingua italiana che Antonio Rizzo ci ha così generosamente regalato in un libro scritto e pure «dipinto», io, da fedele lettrice, mi congratulo con lui!






Otilia Doroteea Borcia
(n. 11, novembre 2021, anno XI)