«Virginia Zeani, L’Assoluta»: pubblicati in Romania due CD con il grande soprano Il recente traguardo dei novant'anni (compiuti lo scorso 21 ottobre nell'attuale residenza di West Palm Beach), l'uscita in Italia per Zecchini del libro-intervista di Sever Voinescu a lei dedicato (e recensito su «Musica» da Michael Aspinall) e del cofanetto qui in recensione (Virginia Zeani – L’Assoluta, musiche di Rossini, Bellini, Donizetti, Verdi; direttori Carlo Franci, Francesco Molinari Pradelli, Vincenzo Bellezza, Alberto Zedda, Fernando Previtali, Franco Capuana, Mario Rossi, Tullio Serafin, Nello Santi;Editura Primus, Oradea, 2CD), ci inducono a parlare con qualche larghezza di Virginia Zeani. Lo sentivamo come un nostro dovere da tempo: crediamo che la storia del teatro d'opera e la connessa critica specializzata siano in forte debito con lei. Non che la sua carriera sia stata tardiva (come una Simionato) o limitata ai circuiti provinciali (debuttò a ventitré anni e cantò nei luoghi più prestigiosi, da Vienna al Metropolitan, dalla Scala al Covent Garden e all'Opera di Roma, qui a lungo primadonna in carica); o che il pubblico non l'abbia applaudita e amata (i fans di Virginia erano una falange clamorosa come poche). Mancarono alcuni crismi ufficiali: una grande etichetta discografica disposta ad accoglierne voce e repertorio (non incise ufficialmente che pochi récitals e due o tre opere); l'ingresso nei salotti buoni della lirica legati all'alta società milanese, quindi alla Scala (celebri sia l'ostilità di Ghiringhelli, sia una frase di Meneghini: «Mia moglie ha paura di lei!»); l'attenzione e la stima d'alcuni critici, troppo distratti da «altro», troppo ancorati a certe precomprensioni per aver voglia di approfondirne la personalità. Sì che, come la Gencer, la Zeani divenne una sorta di regina dei dischi pirata; sì che trovò ottima accoglienza in un'élite romana legata al mondo del cinema (tra gli amici, Grace Kelly, Tyrone Power, Federico Fellini e Giulietta Masina, Renzo e Anita Rossellini, Lattuada) o del giornalismo (Nando e Giulia Perrone, proprietari de Il messaggero); sì che fu apprezzata dai critici operanti nella capitale (Pannain, Rinaldi, Celli, Vlad) e largamente (tramite Poulenc, che la volle nella prima italiana de I dialoghi delle Carmelitane) da quelli in terra di Francia, fino all'invenzione dell'appellativo L'assoluta da parte di Sergio Segalini. I CD editi in Romania non riprendono le incisioni in studio effettuate dalla Zeani a Bucarest per la Electrecord, ma attingono al suo ampio patrimonio live. Il primo, Eroine di belcanto, inizia con l'Otello di Rossini. Uno dei capitoli più celebri della Rossini-renaissance, aperto alla RAI di Roma nel 1960, poi al Costanzi nel 1964, (una produzione che vedeva le scene neobarocche di Giorgio De Chirico e la regia di Sandro Sequi). Il gradimento di pubblico e critica furono tali che l'opera venne ripresa più volte, venne esportata a Pesaro, al Metropolitan e una selezione ne fu incisa per la Philips. Le due pagine qui presenti, provengono l'una – la Canzone del salice e la preghiera – dall'edizione pesarese (Franci, 23 agosto 1965), l'altra – il duetto finale con Aldo Bottion – da quella di New York (ancora Franci, 25 giugno 1968). Unico elemento dei vari cast sempre presente, la Zeani – ha ben scritto Giudici – plasma con Desdemona «una figura di pateticità così intensa da sconfinare verso la tragedia. [...] Il timbro è al servizio d'un fraseggio ovunque interessante, che nella Canzone attinge un vertice la cui notevole efficacia è direttamente proporzionale all'austero pudore espressivo, di conserva alla vellutata morbidezza dell'emissione». La Zelmira, al San Carlo di Napoli (Franci, 10 aprile 1965) volle riproporne il successo nel 1965: dovendo tuttavia scendere a pesanti patti con una scrittura tra le più intricate del Rossini serio, allora inaccessibile ai tenori e appena sfiorabile tra i soprani da chi non fosse Joan Sutherland. La Zeani viene a capo del rondò «Riedi al soglio» mostrandovi il vero senso dell'agilità di forza e dell'empito che furono di Isabella Cobran (certe scale discendenti sono spettacolari), ma poi accettando tagli e accomodi senz'altro eccessivi. Meglio le appartennero I puritani, che eseguì numerose volte accanto a Mario Filippeschi, Gianni Raimondi o Alfredo Kraus. I passi qui riportati sono col primo, da una recita del 12 febbraio 1957 al Verdi di Trieste, un po' sciatta nell'orchestra e nei cori nonostante la bacchetta di Molinari Pradelli. Più che nella Polacca «Son vergin vezzosa», la Zeani emerge in un «Vien diletto» lieve e insieme corposo, nonché nel duetto finale, ove soprano e tenore svettano verso il cielo con sicurezza sfrontata. Ma uno dei gioielli del presente album è sicuramente l'entrata di Lucia di Lammermoor (Londra, Stoll Theatre, 13 maggio 1957, sul podio il grande Vincenzo Bellezza): la Zeani esegue il testo secondo gli insegnamenti della Lipkowska (abbellimenti compresi), però non con la voce filiforme delle colorature liberty, ma con il suono potente e l'accento visionario che il melodramma romantico richiede. Ancor eccezionale il duetto «Verranno a te sull'aure» con Kraus (e Zedda, a Piacenza, il 29 dicembre 1964): per una sintonia da grands jours de l'opéra, tutta giocata sulle nuances, sui rubati eleganti, su una sorta di continua emulazione nel canto e nell'espressione. Amiamo molto e da anni, l'aria «Havvi un Dio», dalla Maria di Rohan di Donizetti (Previtali, Napoli, 24 marzo 1962) con la Zeani: che qui sfoggia certe arcate vocali lunghissime, a sostenere un fraseggio nobile, appassionato, profondamente intriso di malinconia, meglio di quel cupo senso di fine ch'è delle maggiori eroine donizettiane. La cabaletta «Benigno il cielo a ridere» è eseguita per intero e con un perfetto dominio delle vorticose agilità, sino a un mi bemolle finale di superba espansione. Il secondo CD è interamente dedicato a Eroine di Verdi. La scena e cavatina d'Alzira «Da Gusman su fragil barca» (Capuana, all'Opera di Roma il 16 marzo 1967) non cede a nessuna (né alla Gulin, né alla Caballé) quanto a fedeltà ai segni indicati da Verdi, quanto a pregnanza d'accento, quanto a resa dell'atmosfera angosciata d'un sogno oscuramente enigmatico. Il Bolero da I vespri siciliani (Molinari Pradelli, in una tournée del Met a Newport, 23 agosto 1967) è invece dipanato con brillantezza e leggerezza straordinarie (e ancora con quei suoi trilli impeccabili). Delle pagine del Verdi maturo che qui la Zeani affronta – Forza del destino, Aida, Otello – preferiamo senz'altro la seconda, un «Ritorna vincitor» bellissimo (con Rossi, alla RAI di Torino, il 14 dicembre 1965), tutto lavorato in profondità sui chiaroscuri, sui contrasti d'inflessioni alate e di slanci vibranti. «Pace mio Dio», pur notevole, appartiene ad un titolo che la Zeani non cantò mai in teatro e le due pagine dall'Otello (il duetto del primo atto, con McCracken e la Canzone del salice con l'Ave Maria) sono condizionate sia dalla direzione lenta e stanca di Serafin (l'ultima, prima del ritiro, a Roma il 15 dicembre 1962), sia forse da un qualche disinteresse della cantante per la psicologia del personaggio. Meglio certo avrebbe figurato quel «Tu che le vanità» dal Don Carlo di cui sopra accennavamo. Prevedibilmente l'album si chiude con tre pagine di Traviata, tratte dalla recita del 13 gennaio 1960, il debutto al Covent Garden di Londra, con Nello Santi sul podio e il biondo tenore scozzese William McAlpine. È certo una delle grandi Violette della storia, insieme alla Callas e alla Olivero. La tecnica cristallina, la voce mai così bella, la femminilità appassionata, s'uniscono ora a quel nervosismo febbricitante ch'era il segno e il fascino delle malate d'etisia e che porta al calor bianco un' immedesimazione nel ruolo in tutto aderente alla scrittura, ma tale da travalicarne di continuo la lettera. Nella grande aria che chiude il primo atto, non si contano le corone piene d'impeto, i continui, piccoli crescendo e diminuendo, alcuni pianissimi appena soffiati («del viver mio?») o certe espansioni quasi violente («A quell'amor, quell'amor ch'è palpito»); e quei «Gioir!» dal suono aggressivo, fremente eppur malato. O ancora, in «Sempre libera», il registro acuto e le agilità facili, tintinnanti, fino agli ultimi do ribattuti e al mi bemolle finale: neppur un attimo di décor sonoro, solo pura fibrillazione dell'anima. L'«Addio del passato» non arriva al vertice di amaro, crepuscolare intimismo raggiunto all'Arena Flegrea nel 1956 (forse la sua miglior Traviata): qui a Londra c'è una lettura della lettera ideale e poi un nulla d'enfasi; ma è l'agonia e l'estasi barocca d'una Violetta che muore di dolore.
Don Maurizio Modugno
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