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«Il sorriso sardo» di Petru Dumitriu
Di Petru Dumitriu, scrittore romeno nato nel 1924 ed emigrato illegalmente in Occidente nel 1060, quando comincia a scrivere in francese, è uscito il romanzo Il sorriso sardo, tradotto in italiano, dall’originale francese, da Giulio Concu e pubblicato nell’aprile del 2012 dalle Edizioni Il Maestrale (Nuoro), www.edizionimaestrale.com. Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo qui, con qualche modifica e aggiunta, la postfazione di Marinella Lorinczi a questo libro ambientato in Sardegna.
Interludio sardo
Dalle primissime parole, già dal titolo, gli enigmi fanno capolino uno dopo l’altro in questo romanzo di Petru Dumitriu. Il primo: il sorriso «sardo» del titolo (Le sourire sarde), non «sardonico» ma «sardo», oppure forse tutt’e due, incapsulati uno dentro l’altro. Lo si comprenderà a fondo verso la fine del racconto. Voltata pagina, l’enigma sembra trovare la sua soluzione nell’epigrafe: «Lui aveva il sorriso sardo», da Honoré de Balzac. Ma, in realtà, l’enigma è risolto attraverso un altro enigma, la soluzione ne è rimandata. La citazione, tratta da un romanzo di Honoré de Balzac, non fra i più noti del grande scrittore francese (Albert Savarus, 1842), è imperfetta, forse riprodotta a memoria da Dumitriu. Ma, riflettendo bene, nulla è casuale. Balzac, anzitutto, accanto ad André Gide, è il più importante e riconosciuto maestro di Petru Dumitriu, sotto la cui autorevole e feconda influenza viene collocata da tutti i critici l’opera del romanziere romeno. La citazione è d’altronde imperfetta, si diceva. Ma importa piuttosto che laddove Balzac descrive, per bocca di uno dei personaggi, l’eroe eponimo Albert Savaron de Savarus («una testa magnifica, capelli neri ricci e lucenti …, la bocca dal sorriso sardo e un mento troppo corto …»; questo sardo sarà tradotto in inglese con sardonic, per l’appunto), egli presenta un ritratto idealizzato di se stesso. [1]
L’intero romanzo balzachiano, che Dumitriu richiama nell’epigrafe, è considerato dalla critica novecentesca come parzialmente autobiografico e autoriflettente nelle ambizioni e vicende del personaggio principale.
Varrà questo anche per il romanzo di Dumitriu? La domanda è destinata a rimanere quasi sicuramente senza risposta inequivocabile. Enigma irrisolvibile se non attraverso le ipotesi dei suoi esegeti postumi [2], che collegano i cenni autobiografici presenti in racconti anteriori (L’insalata, 1955) e in quelli successivi, con le vaghe eventuali allusioni, nel Sorriso sardo, alla casa d’infanzia, per esempio, che si affacciava non sul mare ma sul Danubio. Ma Petru Dumitriu, nato nel 1924 in Romania, è scomparso nell’aprile del 2002 in Francia. La sua bocca non ci può raccontare più nulla, né in romeno né in francese.
Ma perché mai, dunque, il sorriso di Savarus-Balzac è «sardo(nico)»? Nel 1842, anno di pubblicazione di Albert Savarus, Balzac avrà avuta ancora vivissima l’impressione sgradevole di un orribile, per lui, viaggio compiuto in Sardegna nel 1838 come ‘cercatore d’argento’ nelle scorie di miniere. Viaggio non breve, durato una cinquantina di giorni, duro, faticosissimo e deludente. Le sue lettere all’amata Ewelina Hańska recano le impronte profonde dei disagi – allucinanti per lui uomo di città e quale città! – vissuti con insofferenza e rabbia [3]. «L’Africa incomincia qui» ad Alghero, scrive l’8 aprile 1838; nei luoghi percorsi non sembra scorgere altro che abitanti selvaggi, ricoperti di stracci, distese di palme nane, capre che brucano tutto, pane di ghiande, abitazioni senza fumaiolo, in conclusione e per lo più una profonde et incurable misère (village nul, mode de vie nul, des êtres nuls, «ho scelto questo paese inutile, questa maniera di vivere inutile, in mezzo a degli esseri inutili» scrive Dumitriu centovent’anni dopo, altrettanto sbrigativamente; nullità confacenti peraltro a quella di un forestiero fallito in tutto e per tutto, come studioso marito e padre, e che in tali presunte nullità si rifugia.
È immaginabile che a qualche anno di distanza, pensando nel 1842 alla sue disavventure in terra sarda, il sorriso di Balzac potesse essere ancora tirato, stentato, cattivo; al fine di prolungarlo lungo la traiettoria della sua indubbia fama, lo avrà applicato ad un suo personaggio quasi alter-ego, per essere decenni dopo impresso da Dumitriu sul volto del personaggio-padre geloso del figlio (mauvais sourire «sorriso cattivo»; petit rire venimeux, tout jaune «sorrisetto velenoso, forzato»).
È, in essenza, una maschera tragica e antica e imperitura, archetipica, quella del «viso dalla bocca sarda» irrigidita e ghignante, che irride le proprie sofferenze e che esprime il tormento dell’anima. Si adatta magnificamente ai dialoghi eruditi dei due personaggi archeologi, che si ostinano però a scavare piuttosto, con risultati devastanti, i torbidi e a volte ripugnanti abissi dell’inconscio trasfigurati in motivi mitologici. [4]
I minuti ma taglienti frammenti balzachiani devono essere stati i primi contatti indiretti di Petru Dumitriu con la Sardegna. I successivi, forse ancora mediati dal momento che non si conoscono suoi viaggi nell’isola, devono provenire da letture più affidabili (potrebbe trattarsi di uno degli ottimi Guides bleus, del Touring Club Italiano – Hachette). Ne trae, infatti, una serie di dettagli precisi che lo scrittore romeno rimodella a suo piacere, in funzione di come intende portare a compimento la narrazione di una storia tragica, intessuta di logiche interpersonali oscure e vischiose, immorali indecenti ed innocenti allo stesso tempo, che logoreranno e distruggeranno la vita di una moderna e nordica famiglia, nucleare come la si definirebbe oggigiorno: la triade o il triangolo dei biondi madre, padre, figlio.
Scorcio della Giara basaltica di Gèsturi
Sapeva, Dumitriu, del Campidano e del Logudoro, della Barbagia e della Gallura; questa cartina potenzialmente esatta è da lui disseminata con nomi di località reali o fantasiosamente rielaborati. Partendo da Cagliari verso la costa occidentale e attraversando Iglesias e Oristano si scorgono lungo il percorso i villaggi di Villasurgiu e Logusimius (=Villasimius?), Foguduru e Murangianus (=Fordongianus?), Casteddu e Nurra, nomi resi scuri foneticamente dalla predominanza di una u soffocata come un urlo notturno - percezione, quest’ultima, riplasmata da Dumitriu sulla scia di uno dei luoghi comuni linguistici più noti in tutt’Italia [5]; sull’altipiano della Giara, dietro le colline che la separano da un minuscolo villaggio di pescatori dove si svolge il racconto, vivono i pastori, i veri Sardi (altro noto stereotipo culturale di possibili ascendenze deleddiane nel caso di uno scrittore ipercolto come Dumitriu), veri Sardi dal linguaggio incomprensibile. I personaggi maschili sardi del romanzo portano nomi quali Lupu, Taureddu, Marteddu, nomi alludenti peraltro a figure ed elementi del panteon europeo e mediterraneo precristiano, costantemente ed allusivamente evocato dagli eruditi personaggi.
Il Nuraghe Losa visto dall’alto
Non lontano dal misero paesino si erge il nuraghe Sardegra (forse Sardegna letto male dal tipografo?), con una scala elicoidale nell’intercapedine muraria. Altrove, il grande nuraghe Losa nella pianura di Abbasanta.
Si fa riferimento all’eccellente e dotto archeologo Illiu (di immediata comprensione: il compianto professor Giovanni Lilliu), qualche riga sotto, con perfetta precisione, al suonatore di launeddas itifallico ritrovato ad Ittiri (scoperta la cui notizia circola dal 1907); ai vini vernaccia, nasco e malvasia che richiamano il mare color vino dei naviganti omerici. Alla strepitosa fioritura dei ciclamini selvatici. Al bronzetto nuragico del guerriero dall’elmo terminante in corna ornate da sfere.
E poi parole del lessico comune sardo, corrette ed appropriatamente contestualizzate, come può constatare ogni lettore: sa carre umana equivalente alla chair francese, cunnu «genitali esterni femminili», bagassa «puttana», babbai «babbo, zio, signore», corrudu «cornuto», che sono anche parole-chiave rispetto agli avvenimenti generali o a certi episodi. E persino le accabadoras … («donne di cui si credeva, nella tradizione orale, che praticassero l’eutanasia»); delle quali non si dovrebbe far parola coi Sardi, ammonisce un personaggio, perché essi considerano questa credenza una diceria infamante (evidentemente dal 1967, quando questo romanzo di Dumitriu è stato pubblicato da Seuil, i tempi sono mutati, e le accabbadoras son ritornate in auge … [6]).
Il pozzo sacro di Santa Cristina (Paulilàtino, Oristano), di periodo nuragico
Col nome di Funtana Cuperta, inclusa nella proprietà della famiglia svedese trina autoesiliatasi in Sardegna, si indica quasi sicuramente il pozzo sacro del complesso di Santa Cristina; un altro capolavoro architettonico arcaico, dalla scalinata che scende dritta nel sottosuolo acquoso e tenebroso e che nel romanzo fa coppia antitetica con le scale a spirale del nuraghe Sardegra, che si avvitano nell’aria secca, verso il cielo, verso il sole e la luna.
Concorrono tutti questi dettagli a realizzare un’ambientazione realistica, familiare al lettore sardo e da lui condivisibile? Probabilmente no. Probabilmente il lettore sardo percepisce un uso soprattutto strumentale dell’ambientazione sarda. È bene però temperare l’eventuale disappunto ricordando che il pubblico al quale il romanzo è originariamente destinato è francofono. Dumitriu sfrutta le sue conoscenze per creare o per ricomporre, non realisticamente, piuttosto surrealisticamente o surnaturalisticamente, un fondale panmediterraneo più che altro allegorico e di forte contrasto umano fisico e psicologico, etnico e geografico, rispetto ai personaggi di origine scandinava, alti, solari e tenebrosi al contempo.
Prendendola esattamente per quella che è, senza pretenderne una completa fedeltà geo-etnografica che per la letteratura costituisce un falso obiettivo, l’ambientazione risulta comunque essere altamente scenografica, arte questa di cui Petru Dumitriu fornisce lezioni magistrali. E infatti, dal 1951 fino al 1994, dalla sua vasta produzione narrativa sono stati tratti quattro film corrispondenti, letterariamente, ai dodici anni del periodo 1949-1960 [7], anno quest’ultimo in cui si conclude la sua carriera ‘romena’.
Breve cronaca di un’amplissima cronaca
Petru Dumitriu è famoso nella letteratura romena per la sua prodigiosa capacità di ricreare atmosfere di tempi e luoghi, di grandiosità biblica alle volte, popolati di innumerevoli personaggi che trainano e rilanciano continuamente storie su storie. Lo stesso scrittore potrebbe essere uno dei propri personaggi per la seguente semplice constatazione. È stupefacente notare come i suoi commentatori e critici non riescano a separare la presentazione biografica da quella bibliografica, l’uomo Dumitriu dall’autore Dumitriu. Eppure c’è chi dichiara esplicitamente di voler scoprire il secondo [8] ma poi deve fare continuamente i conti col primo. Altri deliberatamente mescolano i due piani [9]. Così la sovrapposizione diventa inevitabile e perfetta, e il giudizio finale del singolo critico, talvolta implicato personalmente nella biografia dello scrittore, dipende in fondo da quanto egli si smarrisca nel labirinto di un’esistenza fuori dal comune – ma anche esemplare, quasi emblematica – oppure segua i meandri dell’opera, vastissima e bilingue.
Per dare un’idea parziale dell’ampiezza della produzione letteraria di Dumitriu, è sufficiente questo dato: nel 2004, sotto il patronato dell’Accademia di scienze romena, nella lussuosa collana letteraria delle «Opere fondamentali», sono stati pubblicati tre volumi, per un totale di oltre 5200 pagine [10]; questi comprendono, oltre all’apparato critico, la maggior parte dell’opera in lingua romena di Dumitriu, che si estende dalla prima gioventù fino alla sua defezione in Occidente, cronologicamente: dal suo precoce debutto letterario pubblico del 1943 fino al 1960.
Nel 1949, all’età di 25 anni, pubblica Bijuterii de familie (Gioielli di famiglia) che lo consacra di colpo come uno dei maggiori narratori romeni di tutti i tempi. Questo romanzo, la cui storia violenta si svolge durante la grande rivolta contadina del 1907 e che termina con un assassinio intrafamigliare, diventa uno degli episodi costitutivi della prima versione della Cronică de familie (1955). Dal 1949 in poi Dumitriu entra a far parte dell’élite politica e artistica del duro decennio 1950-1960 governato dai vertici del Partito Operaio (ossia Comunista) Romeno, il cui leader era Gheorghe Gheorghiu-Dej. Avvenente e giovane, gode di successo, premi e danaro. Con una personalità civica ancora immatura, si piega (ma non è il solo a farlo) al conformismo politico e letterario, sebbene con la medesima arte da grande ed innato virtuoso della descrizione e dell’intreccio. [11]
Nel 1960, quando si trovava al culmine della notorietà e del prestigio ma al contempo sotto la vigile ed avvilente attenzione delle istituzioni politiche e culturali, Dumitriu lascia illegalmente la Romania [12]. Dopo questa rottura radicale Dumitriu scrive e pubblica in francese, lingua già appresa in famiglia e perfezionata durante gli studi. La sua carriera continua quindi all’estero anche attraverso numerose traduzioni delle sue opere francesi, ma non più ai livelli raggiunti precedentemente; abbandona rapidamente lo stile epico dei suoi romanzi romeni, alla ricerca tormentata di una fede religiosa [13] e di una sorta di purificazione dalle ambiguità e dai compromessi sui quali si è costruito, in Romania, ma poi anche arenato il suo successo. Di questo secondo periodo il romanzo più apprezzato pare essere Incognito (1962, Seuil, oltre 480 pagine, tradotto in francese dall’autore stesso). Va sottolineato che in Occidente, definito da lui un mondo gelido, Dumitriu non si è mai sentito a suo agio; non ha legato con gli altri esuli romeni – tra cui Mircea Eliade – i quali guardavano con diffidenza alla sua defezione.
Questa netta bipartizione nella vita e nell’opera dello scrittore è ben rappresentata nel titolo della corposa monografia di Oana Soare del 2008, Petru Dumitriu & Petru Dumitriu (si veda nuovamente alla nota [2]): due periodi di vita, due carriere, due lingue, due tipi di produzione letteraria, insomma due sorti e in fin dei conti due persone. Fondamentalmente sono due anche gli atteggiamenti dei critici letterari e degli storici, i quali se difficilmente possono negare a Dumitriu lo status di classico della letteratura romena (soprattutto per merito di Cronică de familie, pubblicata integralmente tra il 1955-1957 e consistente di oltre 1500 pagine [14]), molto più facilmente indugiano sulla vita e sulle opportunistiche, persino sciagurate, scelte letterarie realist-socialiste [15] (e sui loro retroscena) compiute dal dandy comunista, dal ragazzo viziato (ma anche controllato e poi denigrato) dal regime. Significativo è al riguardo il duplice atteggiamento di Nicolae Manolescu (n. 1939), autorevole e influente critico letterario, attualmente presidente dell’Unione degli Scrittori romeni e ambasciatore presso l’UNESCO, autore della monumentale Istoria critică a literaturii române. 5 secole de literatură. [16] Manolescu, in un saggio del 1980, ma pubblicato soltanto dopo il 1989, elogia le sontuose descrizioni, i ritratti dei personaggi il cui aspetto fisico rivela la personalità interiore, il ritmo rapido ed energico della Cronică de familie. [17] Invece, nella Storia critica della letteratura romena (del 2008), lungamente meditata, egli sostiene che la Cronaca di Dumitriu è stata sopravalutata, l’autore è un osservatore malevolo ed impietoso e che l’intera opera porterebbe il segno di un realismo socialista tendenzioso. Sorprendenti oscillazioni di giudizio, che in parte coincidono con quelle degli ingenui lettori del ventunesimo secolo, con i giudizi di coloro che appartengono alla schiera dei veri destinatari, ai casuali «lettori empirici».
Esperienze di qualche lettore empirico
Dopo la fuga di Dumitriu in Occidente, avvenuta rocambolescamente nel 1960, la censura di regime degli anni ’60-’80 ha imposto e determinato il silenzio assoluto: per una trentina d’anni, equivalenti ad una generazione, in Romania di Petru Dumitriu non si poteva parlare, non lo si poteva leggere, era sparito dai manuali scolastici dove era entrato trionfalmente negli anni ’50, già ai vertici di una carriera personale ed artistica strepitosa ed unica nel suo genere. Sparisce dalle sale cinematografiche il film realizzato nel 1957 da Gioielli di famiglia (1949), racconto lungo da cui sgorgherà l’intera Cronaca.
Ricorda un lettore blogger nel 2010: «Avevo trovato tanto tempo fa, nel secolo scorso, un vecchio almanacco, forse antologia, di testi degli anni ’50; e là, tra comunisti in illegalità, operai stacanovisti, contadini poveri o ricchi (chiaburi) e altri stereotipi del realismo socialista, ebbi la sorpresa di leggere di cappelli a cilindro, di abiti a crinolina, di istitutrici che rimproverano le loro allieve in francese». [18] Il lettore fa riferimento ad un brano di un altro romanzo breve di Dumitriu, Davida, racconto diventato successivamente capofila della saga famigliare plurigenerazionale raccolta e narrata nella Cronaca. Gioielli di famiglia e Davida figurano nella traduzione italiana del 1963.
Chi scrive ha vissuto invece quest’altra esperienza. Nel trasferirmi in Italia da Bucarest, mi sono portata via dalla mia biblioteca di casa ciò che consideravo essenziale e utile. Tra questi libri v’era la Cronică de familie, nella prima edizione del settembre 1955. Mi domando come mai non me l’abbiano confiscata alla dogana (erano gli anni ’70). Non l’avevo letto, non ricordo di averne sentito parlare tra le persone che frequentavo, tuttavia SAPEVO che era un romanzo importante. Non l’ho letto nemmeno in seguito. Nell’estate del 2010, a Bucarest, su una bancarella nei pressi dell’edificio universitario dove avevo studiato, ho scorso Gioielli di famiglia, titolo tanto familiare e famoso quanto ugualmente vuoto per me di contenuto, e l’ho comprato al volo. Si trattava – colpo di fortuna – della prima edizione del 1949, un modestissimo libricino di circa 150 pagine, che ho letto tutto d’un fiato in uno stato di crescente stupore. Il mio interesse per Dumitriu nasce in queste circostanze.
Molti giovani Romeni sono ancora reticenti ad affrontare l’emblematico e paradossale caso Dumitriu. Il professor Ion Vartic, già citato come studioso di Dumitriu (vedi alle note [14], [17]), in una lettera del 2005, resa pubblica nel 2011, confida all’interlocutore che «i giovani, persino i dottorandi, per lo meno quelli di Cluj, rifiutano di leggere la Cronaca, non hanno simpatia». [19] L’opinione pubblica rimane per il momento profondamente divisa.
Una breve aggiunta: richiami intertestuali
La lettura del Sorriso sardo di Dumitriu pubblicato in Francia nel 1967 – a distanza di sette anni dall’espatrio clandestino dello scrittore, quando le conseguenze e le ricadute su altri di questa decisione insieme drastica e tragica dovevano ancora essere tangibili – impone la domanda circa la conoscenza di questo racconto da parte degli intellettuali romeni di Romania. In primo luogo da parte dei letterati. Non sono in grado di dare nessuna risposta a questa domanda, ma propenderei ad immaginare che vi fosse quanto meno curiosità, tanta curiosità di come si stesse svolgendo all’estero la sua vita personale e artistica.
L’avranno letto in Romania? Se sì, quando e per quali vie? Cosa poteva significare per i Romeni l’ambientazione in Sardegna? Se si può rimanere neutri, come lettori, verso la cornice ambientale oppure verso il nucleo concettuale della narrazione (che è, in termini piuttosto brutali e riduttivi, l’incesto), la struttura e l’andamento del racconto, con il continuo scivolamento da un narratore all’altro, da un personaggio all’altro, da un punto di vista all’altro, sono immediatamente apprezzabili, sia nella loro difficoltà di lettura del momento sia anche, e soprattutto, nella loro efficacia globale. Queste due caratteristiche, accentuate e portate quasi ai limiti della giusta decodifica (secondo il parere quasi unanime, ma non per questo negativo, degli studenti che hanno avuto in programma il testo di Gabriela Adameșteanu), sono vistosamente presenti nel romanzo Întâlnirea della scrittrice romena (Iași, Polirom, 2008, tradotto in italiano e curato da Roberto Merlo, L’incontro, Roma, Nottetempo, 2010). Sono ravvisabili anche coincidenze tematiche, come il rinvio permanente a motivi antichistici che permea entrambi i romanzi.
È diversa, ma più epidermica e perciò più viva, l’impressione del legame intertestuale tra due episodi, uno nel romanzo di Dumitriu e l’altro nel breve racconto Bomba de aur (Bomba d’oro) incluso nel volume De ce iubim femeile di Mircea Cărtărescu (Bucarest, Humanitas, 2004; traduzione italiana a cura di Bruno Mazzoni, Perché amiamo le donne, Roma, Voland, 2009). Propongo quindi, per chiudere senza conclusioni, questi due ritratti a confronto:
«Era una seduttrice [ed era bionda]. Una seduttrice terrificante, perché ostentava freddezza e purezza ed era effettivamente fredda, se non addirittura pura. Si meravigliava ostinatamente della lubricità della gente. “Che c’è di male?” ripeteva, passando le estati col costume due pezzi, dieci anni prima della comparsa e del nome stesso del bikini. […] Era un atteggiamento né languido né sensuale. Lei non si offriva affatto. Splendeva lì davanti a te, per te, con lo scopo manifesto di abbagliarti, e chi non sarebbe rimasto abbagliato? La peggiore delle seduttrici: una seduttrice che non si può toccare, decisa a conquistarti in tutta onestà, con tutta la spontaneità possibile, con ogni purezza d’intenzioni, e capace di farlo senza il minimo sforzo. Non si trattava mai di: “Vuoi andare a letto con me?” ma di: “Guardami, non vedrai mai una donna più bella e più seducente, non ce n’è”. Ed era vero, non ce n’era. C’erano al massimo donne simili, lontano da qualche parte nelle grandi città, ma non in quella bruciante e secca solitudine». (Il sorriso sardo, pp. 41, 43)
«Quindi si denudava, tenuta in piedi da tutti gli sguardi della spiaggia, persino dei gabbiani, poiché soltanto nuda poteva essere realmente compresa e descritta… Sarebbe stata l’ideale di bellezza dell’intera umanità, in effetti… Nuda, diffondeva così tanta luce che tutti gli altri corpi del piccolo golfo assumevano il color livido dei cadaveri… Che età avrà avuto questa donna fatta di panna e oro? Le avrei dato fra i quindici e i diciassette miliardi di anni… Bomba d’oro l’hanno soprannominata fin da subito quelli della spiaggia… la
donna dal pube d’oro che lasciava sulla sabbia, ogni volta che andava via, un affossamento a forma di violoncello». (Bomba d’oro)
Marinella Lorinczi
(n. 7, luglio 2012, anno II)
NOTE
1. André Le Breton, Balzac l’homme et l’œuvre, Parigi, Armand Colin, 1905, pp. 167-168.
2. Oana Soare, Petru Dumitriu & Petru Dumitriu. O monografie, București, Academia Română, Fundația Națională pentru Știință și Artă, Institutul de Istorie și Teorie Literară «G. Călinescu», 2008, 478 pp.; su Le sourire sarde si può leggere alle pp. 332-337 il capitolo intitolato, in traduzione, Il criptogramma mitico e psicanalitico delle «regioni abiette del subconscio».
3. Honoré de Balzac – œuvres posthumes, Lettres à l’étrangère (1833-1842), Parigi, Calman Lévy, 1899, pp. 472-473. Sulle avventure balzachiane in terra sarda si veda Enrico Costa, Ancora Balzac in Sardegna, «La Nuova Sardegna», 29 ottobre 1905; Michele Saba, Onorato di Balzac in Sardegna, «La Nuova Sardegna», 27 agosto 1950; Giorgio A. Bardanzellu, L’avventuroso viaggio di Balzac in Sardegna, «La Nuova Sardegna», 14 gennaio 1951; Honoré de Balzac, Voyage en Sardaigne, a cura di Corrado Piana, Cargeghe (Sassari), Documenta, 2010, recensito da Anne-Marie Baron in «Le Courrier Balzacien», aprile-giugno 2011.
4. Uno di questi motivi potrebbe essere il padre/Crono che divora il figlio. L’implicazione dell’indagine psicanalitica nella narrazione è resa più evidente dal fatto che il nome Carl- Gustaf del padre, che poi farà uccidere il proprio figlio, rimanda a quello di Carl Gustav Jung, fondatore della psicologia analitica.
5. Ne ho discusso in Ironia ed autoironia. Discorsi epilinguistici intorno alla lingua sarda, in Le minoranze come oggetto di satira, Atti del convegno internazionale omonimo – Jesolo 2000, a cura di Adriano Pavan e Gianfranco Giraudo, Università degli Studi Ca' Foscari, Venezia, 2001, I, pp. 214-222.
6. Alessandro Bucarelli, Carlo Lubrano, Eutanasia ante litteram in Sardegna. Sa femmina accabbadòra. Usi, costumi e tradizioni attorno alla morte in Sardegna, Quartucciu (Cagliari), Scuola Sarda, 2003; Dolores Turchi (intervista, 2008): qui; Michela Murgia, Accabadora, Milano, Einaudi, 2009 (romanzo, Premio Campiello 2010; da vedere la suggestiva copertina del libro.
7. Il primo film è del 1951, quando Dumitriu aveva ventisette anni; altri due nel 1956 e nel 1957. L’ultimo nel 1994: Un’estate indimenticabile, produzione franco-romena, genere drammatico, per la regia di Lucian Pintilie, uno dei maggiori registi pre e post-1989, film tratto dal racconto Salata (L’insalata) del 1955 (presentazione inglese e romena).
Locandine del film Bijuterii de familie, 1957 (in rete; si noti che vi compare anche la traduzione del titolo in ungherese)
8. Victor Cubleșan, Petru Dumitriu romancier, Cluj-Napoca, Limes, 2009, p. 5.
9. Ecaterina Ţarălungă, 2004; 2008.
10. Edizione a cura di Ecaterina Ţarălungă. Prefazione di Eugen Simion, storico della letteratura, allora presidente dell’Accademia. E. Simion è autore del volume Convorbiri cu Petru Dumitriu (Conversazioni con P.D.), Iași, Editura Moldova, 1994. Dati abbondanti sulle attività collaterali di Dumitriu, di saggista, pubblicista, di critico e organizzatore letterario durante il periodo ‘romeno’, sono raccolti in Pavel Ţugui, Tinerețea lui Petru Dumitriu (La giovinezza di P.D.), Cluj-Napoca, Editura Dacia, 2001, 168 pp. Recensione di Marius Chivu a quest’ultimo libro.
11. Non potendo qui approfondire la tematica sociale e politica del decennio 1950-1960, rimando a Francesco Guida, Romania, Milano, Unicopli, 2005, collana «Storia d’Europa nel XX secolo». Il momento più infamante della collaborazione artistica di Dumitriu con la politica dell’era Gheorghiu-Dej è la stesura e la pubblicazione, nel 1951, dell’«esecrabile, orripilante» e massiccio romanzo Drum fără pulbere (Strada senza polvere). Opera intesa quale omaggio all’enorme impresa di costruzione del canale Danubio – Mar Nero, sospesa nel 1955, ripresa e conclusa ai tempi di Nicolae Ceaușescu. Nella sua prima fase, il cantiere del canale fu un vero campo di lavori forzati, dove venivano sfruttati a morte migliaia di detenuti politici.
12. In una lettera, scritta nel febbraio del 1960 a Berlino, Dumitriu espone a Gh. Gheorghiu-Dej le ragioni del suo gesto; questo documento è riportato nel già ricordato volume di P. Ţugui , alle pp. 156-158.
13. Un commento a margine di quest’aspetto della sua esistenza umana e artistica si può leggere in un necrologio firmato da James Kirkup: Petru Dumitriu. Writer whose cry to God met with silence, «The Independent», 12 aprile 2002.
14. Parzialmente pubblicata in francese da Seuil nel 1959-1960, in due volumi. Nel 1963, l’editrice Lerici (Milano) pubblica una traduzione italiana di una delle versioni brevi della Cronaca, col titolo I Boiardi. Gioielli di famiglia. Traduttore Piero Del Giudice. Il volume di 484 pagine comprende gli episodi: Davida, Fanciullaggini (in romeno Copilării), La posizione degli astri al 19 luglio, La vita di Bonifacio Cozianu, Un viaggio di piacere, Gioielli di famiglia. Sui pettegolezzi e sospetti, sulle accuse di plagio imputato a P.D. in relazione alla stesura della Cronaca, soprattutto dopo il fatidico 1960, si legga il saggio di Ion Vartic, Petru Dumitriu şi „negrul” său (P.D. e il suo ‘negro’), I e II, «România literară», 2005, nn. 15-16.
15. Sullo stile realista socialista, in particolare nella letteratura romena, si possono utilmente consultare le seguenti voci e lavori: in inglese; sempre in inglese; Ion Simuț, Proletcultism sau realism socialist?, I e II, «România literară», nn. 30-31, 2008; Deborah Schultz, Methodological Issues: Researching Socialist Realist Romania, in Local Strategies, International Ambitions. Modern Art and Central Europe 1918-1968, a cura di Vojtech Lahoda, Praga, Artefactum, 2007, pp. 223-228.
16. L’opera, finalizzata ad una rifondazione del canone letterario romeno, appare a Pitești nel 2008, presso Editura Paralela 45; ha 1528 pp., formato in ottavo; di P.D. alle pp. 965-970.
17. N. Manolescu, Literatura română postbelică. Lista lui Manolescu. 2. Proza. Teatrul, Bucarest, Aula, 2001; su Cronică de familie alle pp. 93-105, scritto già pubblicato nel 1990, nei nn. 2-3 di «România literară» ma che risale, si diceva, al 1980. Segnalo altresì la lunga ed equilibrata voce su P.D., firmata da Ion Vartic, in Dicționarul scriitorilor români, coordinato da M. Zaciu, M. Papahagi, A. Sasu, Bucarest, Editura Fundației Culturale Române, II vol./1999, pp. 183-194. Tra i numerosi articoli apparsi nelle riviste letterarie, ricordo quello sintetico di Alex. Ştefănescu, dal titolo eloquente Petru Dumitriu. O operă care trebuie reconstituită (P.D. Un’opera che va ricostruita), «România literară», n. 18,1999.
18. A questo link.
19. Constantin Ţoiu, Ion Vartic despre Petru Dumitriu (I.V. su P.D.), «România literară», n. 12, 2011.
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