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Semplice, essenziale, realista: Umberto Saba in Romania, a 130 anni dalla nascita
Quale potrebbe essere la reazione dei lettori di lingua romena di fronte a una silloge di poesie di Umberto Saba? Quali aspetti valorizzare per presentare a un pubblico straniero un poeta e prosatore di altissimo livello, fra i maggiori del Novecento letterario italiano? Su quali pregi insistere perché il lettore straniero sia colpito e affascinato, e possa perciò affrontare la lettura con interesse vivido?
Meditando su queste domande, sono arrivata alla conclusione per cui l’aspetto da evidenziare in primis, quello più importante, preliminare alla possibilità stessa di inoltrarsi in una disamina tematica e stilistica, sia l’appassionante messaggio etico di semplicità e umiltà che emerge dall’intera opera di Saba. Questo volume contiene un florilegio da una delle opere poetiche più raffinate e complesse prodotte in italiano nella prima metà del Novecento, ma in essa la complessità non si manifesta a prima vista: resta mimetizzata dietro un sistematico lavorìo di semplificazione formale che la cela allo sguardo di superficie. Le poesie sabiane, e spesso anche le prose, si presentano come apparentemente semplici, facili, leggere, contrassegnate da naturalezza e armonia classiche. La loro compostezza quasi retrò sembra collocarle al di fuori della tradizione novecentesca, e richiamare piuttosto modelli antichi, tradizionali, spesso allusivi a ritmi e stilemi popolari.
Tradizione e innovazione: una modernità sconcertante
Ma la semplicità è solo apparente. A uno sguardo più attento, Il Canzoniere (il capolavoro che raccoglie 437 testi, e quindi quasi tutta la produzione poetica sabiana, comprese le poesie qui incluse) rivela una struttura articolata e laboriosa, studiata in ogni particolare. La stessa lunga gestazione dell’opera, che vide la prima edizione nel 1921 e le successive accresciute nel 1945, nel 1948, e nel 1957 (ma la definitiva, uscì postuma nel 1961), rende conto del continuo, indefesso lavoro di perfezionamento formale che l’autore vi dedicò, inserendo al suo interno le nuove raccolte via via composte, secondo ordinamenti sequenziali continuamente ripensati. Accanto alle versioni pubblicate, ne sono state ritrovate due inedite, rispettivamente del 1919 e del 1943, che differiscono dalle altre nell’organizzazione interna. Il risultato di questa ininterrotta ridefinizione della struttura è non solo che l’edizione definitiva testimonia un’attività lirica durata oltre un cinquantennio (dal 1900 al 1954), ma anche che essa si raccorda e inscrive in un ambizioso piano unitario, teso contemporaneamente alla separazione dei materiali e alla loro coesione, secondo processi di circolarità semantica. Da questo punto di vista, Il Canzoniere è una raccolta di poesie, ma è anche una narrazione composta da una serie di poesie, una sorta di romanzo in versi, «un romanzo psicologico», come lo definì il suo autore, al cui interno ogni singolo componimento ha senso di per sé e al contempo in un reticolato di rimandi agli altri, come nella relazione che intercorre, in musica, tra i singoli motivi melodici e l’armonia dell’insieme sinfonico.
L’apparente leggerezza stilistica è il risultato di una scelta intenzionale da parte dell’autore, una scelta di matrice etica, che si identifica con la ricerca costante, nella poesia e per la poesia, di un significato di verità universale. Si tratta di un significato non soltanto umano, dal momento che la poesia aspira anche a essere voce del mondo animale, come rivela il ricco bestiario presente nel Canzoniere, e come mostra, per esempio, una celeberrima poesia come La capra, riprodotta in questa silloge, ma che vale la pena di citare per intero:
Ho parlato a una capra.
Era sola sul prato, era legata.
Sazia d’erba, bagnata
Dalla pioggia belava.
Quell’uguale belato era fraterno
al mio dolore. Ed io risposi, prima
per celia, poi perché il dolore è eterno,
ha una voce e non varia.
Questa voce sentiva
gemere in una capra solitaria.
In una capra dal viso semita
Sentiva querelarsi ogni altri male,
ogni altra vita.
Se in questo testo potremmo cogliere alcune spie di antropomorfizzazione, come l’atto del parlare e la menzione del viso «semita» della capra, in Saba è sempre più vero il contrario: è cioè l’uomo a essere presentato più spesso come un animale, in un movimento che non è di abbassamento, ma è di elevazione, in senso quasi religioso, nel segno dell’universalità e della fratellanza cosmica della vita creaturale.
Il quasi si riferisce all’assenza di connotazioni religiose specifiche. Per metà ebreo e per metà cristiano, il nostro autore non rivela una particolare adesione all’una o all’altra religione: delle dottrine e delle pratiche istituzionali, anzi, resta sempre fiero avversatore. Anche se la tragedia della persecuzione antisemita fu da lui vissuta in prima persona, il suo rapporto con l’ebraismo, e più in generale con ogni credenza organizzata in sistema, restò sempre conflittuale e irrisolto. Il riferimento al Signore che troviamo in tante liriche, come, ad esempio, in Città vecchia («Qui prostituta e marinaio, il vecchio/ che bestemmia, le femmina che bega,/ il dragone che siede alla bottega/ del friggitore,/ la tumultuante giovane impazzita/ d’amore,/ sono tutte creature della vita e del dolore;/ s’agita in esse, come in me, il Signore») è da leggersi più in termini di astratta rivelazione dell’universalità della vita che non come allusione a una o più specifiche fedi.
Ne fornisce un’ulteriore e inconfutabile testimonianza una delle poesie più note del Canzoniere, forse la più nota in assoluto, insieme a La capra, anche perché di norma inclusa in tutti i manuali scolastici di letteratura italiana: A mia moglie. Gli accostamenti tra la moglie e, rispettivamente, una «giovane e bianca pollastra», una «gravida giovenca», una «lunga cagna», una «pavida coniglia», una «rondine» e una «provvida formica», commentati dall’iterazione dei versi esplicativi che le definiscono «femmine di tutti/ i sereni animali/che avvicinano a Dio», ottiene ancora oggi un effetto spiazzante, stridente e disorientante per il lettore, abituato alle similitudini tradizionalmente codificate nella lirica d’amore. Il fatto che gli animali più umili siano citati per nobilitare, invece che per degradare, appare a prima vista come un segnale parodico e irridente nei confronti dei moduli tradizionali della lirica. Ma non c’è vera ironia. Siamo di fronte, piuttosto, a un’innovazione radicale, e ciò spiega perché la poesia suscitò inizialmente scandalo e reazioni indignate. Quello a cui il lettore assiste è un sovvertimento concettuale, prima che retorico: un ribaltamento immaginativo, piuttosto che solo stilistico. La poesia di Saba rivoluziona il genere, costruendo effetti contemporaneamente lirici e antilirici, sublimanti e desublimanti. Gli accostamenti sono provocatori perché sembrano paradossali. E la scoperta, alla fine, del loro non esserlo sortisce un effetto educativo nel lettore, in difesa del significato profondo della vita. Traspare da essi una visione del mondo che si colloca agli antipodi rispetto al superomismo dominante nella cultura e nella politica europea fino alla seconda guerra mondiale.
La rivoluzione di Saba. Un’apertura europea
Per questa sua visione profondamente etica, da cui deriva un’intensa poetica della semplicità e della essenzialità realistica, Saba è un autore che merita di essere conosciuto e valorizzato anche fuori d’Italia. Contro il giudizio non completamente positivo di Gianfranco Contini (il quale scrisse: «Che Saba accetti molta, e anche troppa, realtà sulla propria pagine, è constatazione pacifica» [1]), la grandezza di Saba sta proprio nella convinta adesione alla realtà, tanto nei contenuti quanto nel linguaggio, insieme colto e semplice, ricercato e comprensibile. La sua è una rivoluzione che non si mostra come tale e che verrà spiegata in seguito. E forse proprio per questo il grande critico-filologo del Novecento italiano, il maggiore difensore del canone espressionista, non poteva apprezzarla fino in fondo, mentre, non per caso, negli stessi anni, essa fu compresa, prima degli altri, da Giacomo Debenedetti, l’altro grandissimo critico italiano, che pone al centro della sua ermeneutica la questione dell’uomo e del destino.
Quella di Saba, insomma, è una sperimentazione insieme stilistica ed esistenziale, psicologica e spirituale, all’interno di un orizzonte integralmente laico. La sua scrittura è tesa alla rappresentazione della vita nelle sue forme più umili, è nobilitazione, se si vuole, delle sue manifestazioni più banali. Di esse l’ars poetica rivela la significatività, nel senso duplice del valore e del mistero. I versi ne indagano il senso, quello che si annida, come perenne dubbio, nelle domande fondative di ogni singola esistenza. La poesia tenta di fornire delle risposte, è essa stessa risposta al mistero, al dolore, all’oscurità e alla disperazione della vita, persino in senso terapeutico, visto che mira a produrre la guarigione di chi scrive e di chi legge. Tanto nella lirica, genere in cui l’autore si è cimentato più a lungo e con il quale ha conquistato i suoi maggiori riconoscimenti, quanto nella prosa (che è meno nota, ma non è di minor valore), quella sabiana è una voce che vuol parlare all’umanità, a «tutti/gli uomini di tutti i giorni» e di tutti i tempi, alla «calda/ vita di tutti», nei suoi aspetti più quotidiani e comuni.
Le citazioni sono tratte da una delle poesie più intense e paradigmatiche del Canzoniere, Il borgo, inclusa nella sezione Cuor morituro, il cui tema principale è proprio l’afflato universale che si annida nell’anonimato dell’esistenza umana. Vale la pena di citarne alcuni passi:
Fu come un vano
sospiro
il desiderio improvviso d’uscire
di me stesso, di vivere la vita di tutti,
d’essere come tutti
gli uomini di tutti i giorni.
(…)
La fede avere
di tutti, dire
parole, fare
cose che poi ciascuno intende, e sono,
come il vino ed il pane,
come i bimbi e le donne,
valori
di tutti. Ma un cantuccio,
ahimè, lasciavo al desiderio, azzurro
spiraglio,
per contemplarmi da quello, godere
l’alta gioia ottenuta
di non essere più io,
d’essere questo soltanto: fra gli uomini
un uomo.
Tornerò in conclusione su questi versi, apparentemente così semplici, appunto, quasi elementari, e invece in realtà di interpretazione complessa, sia perché ricchi di rimandi interni al restante corpus del Canzoniere, sia perché percorsi ambiguamente da sottili contraddizioni e da velata ironia.
Quello che qui mi preme sottolineare è che sotto l’egida del grande interrogativo sul senso della vita e sui meandri oscuri della psiche, la ricerca di chiarezza si identifica in Saba con un compito ambizioso ed elevato. La poesia viene investita di un mandato sociale: quello del controllo formale come espressione di onestà, e della semplicità come massima forma espressiva, come obiettivo più alto e finale dell’arte. Non è un caso, in questo senso, che il titolo originariamente pensato per Il canzoniere fosse Chiarezza. Esso ci aiuta anche a comprendere alcuni sottintesi non immediatamente visibili inscritti nell’alone semantico di quello scelto in seguito.
L'autobiografismo dello scrittore triestino
Prima di affrontare meglio la questione Saba, mi sembra a questo punto necessaria una digressione introduttiva. Nato a Trieste nel 1883, Umberto Saba si chiamava all’anagrafe Umberto Poli. Lo pseudonimo venne assunto nel 1911, probabilmente per onorare il nome dell’amata balia Peppa Sabaz (secondo alcuni, tuttavia, in omaggio alla parola ebraica «saba», che significa /pane/ e-o /nonno/). La figura della balia ebbe un’enorme importanza nella formazione affettiva dello scrittore. L’unione dei suoi genitori durò pochi mesi, il padre abbandonò la famiglia prima della nascita del bambino. La madre, ebrea, era di carattere austero e severo, al contrario del padre, che il figlio conobbe da adulto, e che rievoca sempre come una figura vitale e solare. La donna aveva affidato il bambino alla balia per tutta la durata dei suoi primi tre anni. Dopo averlo ripreso, gli impose un’educazione rigida e repressiva. Se il periodo della primissima infanzia sarà sempre ricordato da Saba come un’età felice, la relazione con la madre sarà invece rievocata come fonte di ansia e di nevrosi. Gli scritti poetici e in prosa sono disseminati di testimonianze del conflitto con la figura materna: se ne trova qualche segno, tra le poesie qui incluse, in A mamma, o, meno visibilmente, in Preghiera alla madre. Una traccia palese della recriminazione di lei nei confronti del marito fedifrago si ritrova, per esempio, nel distico incipitario del celebre sonetto n. 3 della sezione Autobiografia: «Mio padre è stato per me “l’assassino”,/fino ai vent’anni che l’ho conosciuto». Se tutto Il Canzoniere è attraversato dal registro autobiografico, al suo interno le figure genitoriali sono costantemente presenti come modelli contrapposti: il padre ridente, leggero, fanciullesco; la madre triste, dura, cupa: «Egli era gaio e leggero; mia madre/tutti sentiva della vita i pesi», recita la prima terzina dello stesso sonetto.
Come ha rilevato Romano Luperini: «La mancanza del padre e la severità vittimistica della madre creano le basi, unitamente alla separazione dalla balia, di una profonda scissione interiore» [2]. Essa favorisce l’insorgere dell’omosessualità, raccontata tramite allusioni e reticenze nel Canzoniere (un esempio può essere il sonetto Glauco), e resa invece manifesta in un incontro adolescenziale che è al centro del romanzo autobiografico Ernesto, edito postumo nel 1975. Questa scissione è alla radice dell’onnipresente spinta verso lo scavo autobiografico, secondo un contraddittorio meccanismo ossessivo che da un canto non può tacere, per il bisogno, l’urgenza, la necessità di perlustrare il continente sepolto del sé, e dall’altro si proietta verso un’agognata, perché pensata come benefica, fuoruscita dall’io, secondo quanto abbiamo già visto nelle due strofe citate del Borgo.
Il confronto intertestuale tra il romanzo e il repertorio poetico è illuminante per cogliere la variegata stratigrafia di un sé inquieto che alternativamente si mostra e si nasconde, ri-contrattando incessantemente il proprio patto autobiografico con il lettore. Anche la restante produzione in prosa, da Scorciatoie e raccontini (1946) a Ricordi-Racconti (1956) all’epistolario [3],è di fatto tutta percorsa dalla presenza ossessiva di un io che, citando un celebre titolo di Ronald Laing, potremmo definire «diviso». Le sue frammentazioni ci forniscono un’altra testimonianza, oltre alle tante di cui è disseminata la letteratura europea del primo Novecento, dell’inconsistenza della coscienza, della sua incoscienza sostanziale, della sua debolezza contro il dominio inconscio.
La scrittura si configura in Saba come un veicolo liberatorio delle pulsioni profonde, ma anche come una risposta lucida alle sue malattie, quasi una forma di distanziamento. È lo stesso impulso autobiografico, in quanto sintomo del dolore e insieme tentativo di suo rimedio, a generare la tensione verso la sublimazione poetica. Nel gradevole e brillante commento critico che l’autore dedicò al proprio capolavoro, Storia e cronistoria del «Canzoniere» (1948), leggiamo: «Ogni autobiografia (…) è, necessariamente, un bagno di narcisismo. Immaginate quindi cosa possono essere le autobiografie dei poeti!» [4]. L’autoironia scoperta rende ancora più complessa la stratigrafia del sé, ne mostra più profondamente l’ambiguità della labirintica configurazione interna. Per questo, l’etica della chiarezza e della semplicità si coniuga strettamente allo scavo autobiografico: perché da esso dipende, come risultante di una sinergica tensione al riequilibrio. Alla fin fine, allora, l’opera di Saba può essere considerata come un’architettura unitaria, come un unico macrotesto che mette in scena la costruzione di un io frammentato in cerca di parziale ricomposizione: sotto il segno dell’antitesi genitoriale, e più avanti sotto quello della moglie Lina (Carolina Woelfler, sposata nel 1909), altra presenza costante dell’opera come della vita dell’autore.
La psicoanalisi: un’esperienza umana e letteraria
Bastano forse questi pochi riferimenti per suggerire al lettore la presenza di un forte movente psicologico, rivolto soprattutto all’oscura percezione di una persistenza dell’infanzia. Si tratta, come ha scritto Maria Antonietta Grignani, di un attaccamento doloroso e insieme narcisistico, tipico di chi «non vuole accomiatarsi dall’infanzia, proprio perché l’infanzia sua è stata infelicitata da lacune affettive» [5]. La prima età della vita, però, non è vista come un Eden, ma come il regno remoto e misterioso della ribollente formazione dell’inconscio. Il linguaggio infantile, simile a quello poetico, è lo strumento di espressione della sua vita magmatica, ma è anche il mezzo estraneo della sua dolorosa individuazione.
Saba conobbe la psicoanalisi freudiana prima che questa penetrasse in Italia. Come il suo illustre concittadino Aron Hector Schmitz, in arte Italo Svevo, anche l’autore del Canzoniere fu testimone e protagonista di una cultura marginale, rispetto all’Italia coeva, e tuttavia privilegiata, perché antesignana di tendenze in pieno fermento, che si sarebbero affermate con forza dirompente, di lì a poco, in tutta Europa. La differenza è che mentre il primo restò sempre scettico nei confronti della psicoanalisi come metodo di cura, il secondo, invece, grazie all’influenza positiva dello psicoanalista Edoardo Weiss, nutrì sempre fiducia in essa. Nato a Trieste nel 1889, e anch’egli ebreo, Weiss fu allievo di Sigmund Freud, fondò a Roma, nel 1925, la Società Psicoanalitica italiana, e fu il primo a introdurre in Italia la pratica della psicoanalisi, cui si dedicò con dedizione fino a che non fu costretto a emigrare, nel 1939, negli Stati Uniti, per sottrarsi alle leggi razziali. L’autore del Canzoniere si sottopose a una terapia psicoanalitica con lui, a Trieste, tra il 1929 e il 1931.
Pur avendo tratto giovamento dalla cura, subito dopo la guerra Saba si ammalò di depressione, forse a causa del senso di isolamento con cui aveva vissuto gli anni del conflitto, tra continue fughe per sottrarsi ai rastrellamenti, e un periodo di clandestinità a Firenze. Dal 1950 fu costretto a continui ricoveri in cliniche psichiatriche. Gli ultimi anni della sua vita furono segnati da ricadute cicliche in gravi crisi, che si alternavano a periodi di relativa serenità, dovuta in buona misura al crescendo dei riconoscimenti letterari. Non che questi fossero completamente mancati nei decenni precedenti, ma nel complesso si può dire che prima degli anni Cinquanta avessero prevalso le incomprensioni e in qualche caso le vere e proprie ostilità. Una serie di autorevoli recensori aveva sostanzialmente stroncato le prime pubblicazioni del poeta, e il gruppo della rivista «La Voce», capeggiata da Giovanni Papini, come quello della «Ronda», capeggiato da Emilio Cecchi e Riccardo Bacchelli, avevano operato un vero e proprio ostracismo nei suoi confronti, cosa che del resto aveva fatto anche Renato Serra, altro critico assai influente. Una fase diversa si era aperta alla fine degli anni Venti, e precisamente nel 1928, quando, anche per influenza dei giudizi positivi di Giacomo Debenedetti e di Sergio Solmi, risalenti a qualche anno prima, l’importante rivista fiorentina «Solaria» dedicò al triestino un numero speciale, che comprendeva anche un intervento di Eugenio Montale. Ciononostante, negli anni Trenta e Quaranta continuarono le critiche negative, talora riduttive, talora segnate da fraintendimenti.
La morte coglie Saba nel 1957, pochi mesi dopo quella della moglie, e prima, dunque, della vera e propria consacrazione critica, avviata, sul finire decennio, da un intervento appassionato di Pier Paolo Pasolini. Negli anni successivi il dibattito critico si è arricchito dell’apporto di studi notevoli ad opera di grandi critici, come Carlo Muscetta, Pier Vincenzo Mengaldo, Mario Lavagetto, per citarne solo alcuni. La bibliografia secondaria è oggi molto ampia e qualitativamente rilevante. E si spera che resti soggetta a crescita costante, nel pieno riconoscimento del valore di Saba e della sua centralità per il canone letterario italiano del Novecento.
Una particolare condizione geografico-culturale
Oltre alla condizione personale e psicologica di scissione, la seconda scissione necessaria per comprendere la poesia di Saba è quella geografico-culturale, legata alla posizione di Trieste a cavallo tra i due secoli. Quando l’autore nacque, la città non faceva parte dell’Italia, ma apparteneva ancora all’impero austro-ungarico. Essa afferiva, dunque, a quell’area mitteleuropea tanto cruciale per l’Europa del Novecento, ed era un porto di mare: un crocevia di culture e di etnie, un luogo esposto a influenze contrastanti, un territorio di confine e di passaggio anche dal punto di vista linguistico. Non solo l’influenza di Freud e di Niezstche, ma anche la commistione linguistica, etnica e religiosa, contribuirono a fare di Trieste un luogo particolarmente vivace e ricettivo, anche se appartato e persino attardato rispetto al coevo quadro nazionale.
Al riguardo dell’italiano dei triestini, nella Coscienza di Zeno, Svevo scrive: «con ogni parola italiana noi mentiamo! (…) la nostra vita avrebbe tutt’altro aspetto se fosse detta nel nostro dialetto» [6]. La percezione della stessa estraneità linguistica segna in profondità anche la scrittura di Saba, come si può dedurre dalla sua predilezione per i termini prosastici, umili, quotidiani, alla ricerca però, in tanti casi, della loro ascendenza classica e talora persino aulica. Nel romanzo Ernesto, che Saba non volle pubblicare e che anzi aveva intenzione di distruggere, il dialetto triestino è usato per liberare dalla censura le pulsioni erotiche, quindi come lingua madre, primaria, in certo senso più immediata e vera. L’italiano, per converso, si prospetta come una lingua seconda, più impostata e recitata, come un codice meno intimo, anche se più capace di trascendere il particulare e di porsi come un lasciapassare al varco delle frontiere.
Anche nel caso del linguaggio, allora, l’ambizione verso l’universalità che si ritrova in Saba deriva proprio dalla condizione di estraneità, di esilio, di marginalità. Da causa di frustrazione, essa si trasforma alla fine in condizione privilegiata per guardare al resto del mondo come da un osservatorio superiore. Questo aspetto ne rende l’opera attuale, perché offre, nel nostro mondo globalizzato e sempre più omologato, una testimonianza di valorizzazione del margine. In questo senso, Saba potrebbe essere considerato un capostipite dei tanti poeti d’oggi che scrivono dalle zone di confine, e che proprio per questo riescono a vedere, con sguardo più lucido e obiettivo, quanto si cela allo sguardo di molti. Perché collocarsi ai bordi del potere, anche di quelli che coincidono con le egemonie culturali, significa essere più critici e più difesi nei confronti della cultura dominante.
Proprio la marginalità rispetto al contesto nazionale, e la vicinanza a quello europeo, spiegano l’importanza che ha rivestito l’area triestina per la sprovincializzazione della cultura italiana nei primi decenni del Novecento. Non è un caso che anche un altro scrittore fondamentale per il canone letterario italiano, Italo Svevo, provenga da quest’area e abbia, alla fin fine, tanto in comune con Saba. Anche Svevo, come Saba, subì l’ostracismo della intellighenzia italiana, ed entrambi furono autonomi rispetto alla cultura ufficiale del loro tempo, a costo di insuccessi e indifferenze. La linea poetica avviata da Saba trovò molti seguaci nel secondo Novecento, ma faticò non poco ad affermarsi. Poeti come Ungaretti e Montale appaiono lontanissimi dal triestino, proprio perché più interni al dibattito letterario italiano della prima metà del secolo. Ma fu forse Gabriele d’Annunzio l’autore a cui Saba si contrappose più radicalmente, seppure riconoscendo, a differenza di altri, una propria segreta e conflittuale ammirazione. Nel saggio giovanile Quel che resta da fare ai poeti (1911), egli definisce «disonesta» e «retorica» la poesia dannunziana, e ad essa contrappone lo stile umile e piano di Manzoni. Ma In Storia e cronistoria del «Canzoniere» ammette: «quel qualcosa di falso, di trascendente il segno, che si avverte anche in fondo ai suoi componimenti migliori, lo allontanava da lui come dalla sua naturale antitesi. (…) [Tuttavia non] giunse mai a quella completa ed ingiusta negazione dei valori dannunziani alla quale giunsero invece tanti suoi contemporanei» [7]. Oltre che come retore magniloquente, d’Annunzio è visto da Saba anche come un caso estremo di protagonismo narcisistico. L’uomo dinamico e d’azione è percepito come la propria antitesi perché, tenendo a mente la nota diade di Schopenhauer, Saba si sente sempre un soggetto, oltre che un poeta, contemplativo.
Lo spettro semantico del titolo del «Canzoniere»
Prima di avviarmi alla conclusione, mi pare necessario riflettere sullo spettro semantico evocato dal titolo del Canzoniere. Secondo molti, la scelta derivò dal Buch der Lieder di Heine, molto apprezzato da Saba nella traduzione italiana, intitolata, appunto, Canzoniere. Tuttavia, il referente principale che viene subito in mente al lettore comune è, ovviamente, il celeberrimo capolavoro di Petrarca, anche se, com’è noto, il termine non coincide con il titolo originale, ma con quello che cominciò a circolare in età umanistica. Sorregge la citazione intertestuale non solo la continuità del genere, ma anche la centralità dell’io, di un io tormentato, malinconico, propenso alla riflessione (in contrapposizione all’azione), immerso in una dolorosa e insieme «desiata» solitudine, in coincidenza piena con l’opera di Petrarca e con il topos stesso che da esso deriva e che costituisce il principale asse della successiva lirica di ispirazione petrarchesca. Anche il tema amoroso è centrale nell’opera di Saba, come in quella di Petrarca, e si tratta anche qui di un sentimento irrequieto e insoddisfatto. L’amore, concentrato sulla moglie Lina e su altri personaggi femminili, in genere ragazze (Fanciulle è anche il titolo di una sezione), non sempre coincide con l’eros, che si estende molto oltre lo spazio delle relazioni amorose. Esso è soprattutto pulsione latente, libido sottoposta a repressione, sia per la sotterranea presenza del tema omosessuale, di cui si è già parlato, sia per la pervasività di un istinto primordiale, che si manifesta anche nel rapporto fisico con la natura, con gli animali, con la stessa città di Trieste, e con figure e personaggi dei ceti popolari, come le prostitute di Città Vecchia prima citate. È anche importante ricordare che Saba considerava i poeti dei veri e propri sacerdoti dell’eros, in quanto cantori di un’universale pulsione erotica, intesa, in senso freudiano, come una forza ancestrale, oscura e dirompente. È la vitalità stessa, per Saba, a coincidere propriamente con la libido, definita spesso «la brama».
Nell’italiano delle origini, la voce ‘canzoniere’ indicava il compositore di canzoni musicate, non la loro raccolta. Lo slittamento semantico avvenne più tardi e non contemplò subito il riferimento, assunto dall’Umanesimo in poi, grazie al successo del capolavoro di Petrarca, di opera omogenea a cura di un autore unico. Oggi il termine è di nuovo associato alla canzone in musica, soprattutto a quella popolare e dei cantautori. Entrambe le accezioni, quella letteraria alta e quella popolare antica e poi moderna, giocano nel titolo di Saba, rimandando al doppio registro dell’opera: da un lato prodotto colto, classico e persino iper-letterario, dall’altro testo popolare, facile, scritto per arrivare a tutti. Il titolo rende subito chiara l’ambizione anacronistica, che si rivela poi in realtà sovratemporale, del richiamo alla tradizione, e ne nasconde invece la modernizzazione operata in sordina, dall’interno. La presenza, nel Canzoniere, di sonetti, canzonette, forme metriche tradizionali, e la mancanza del verso libero, sostituito in qualche caso da un uso libero di versi tradizionali, si accompagna a una sperimentazione continua, a una grande varietà di soluzioni originali. L’uso peculiare dell’enjambement, soprattutto, e quello della rima servono a costruire una ricca molteplicità di effetti di straniamento rispetto alla metrica tradizionale. Un confronto con Chiarezza, il vecchio titolo scartato, permette di comprendere come nella maggiore opacità del termine poi scelto si annidino non solo i significati fin qui esposti, ma anche quello della selva di sovrasensi e di citazioni che ogni topos veicola. Al titolo iper-canonico viene affidato un duplice messaggio: esso è richiamo sofisticato, per il lettore colto e capace di comprendere, dell’opera, la genesi classica e la rottura moderna, ed è al contempo senhal usurato e stereotipico, e perciò tranquillizzante, se non proprio accattivante, per un lettore ingenuo.
Occorre, infine, spendere qualche parola sulla topografia triestina del Canzoniere, e sulla stessa Trieste, che occupa nell’opera uno spazio rilevante, in quanto specifica realtà urbana e geografica, ma anche in quanto metafora prolungata o allegoria della maternità, dell’indistinto uterino, o talora del paradigma della vita e della morte. E vorrei qui ritornare al Borgo e ai suoi sensi contraddittori velati da una malinconica ironia.
In questo testo l’io poetico, come spesso accade in Saba, si presenta lacerato tra tre diverse dimensioni temporali: l’infanzia, la giovinezza dei venti anni (per notazione esplicita), e il presente della vecchiaia che rivive un’«eco perduta/di giovanezza». La terzina iniziale («Fu nelle vie di questo/Borgo che nuova cosa/m’avvenne») viene resa ambigua dai versi successivi. Inizialmente sembra che qualcosa di nuovo sia accaduto al soggetto di venti anni, ma lo stesso avvenimento sembra poi essersi già verificato nel passato, nell’infanzia. Esso sembra, inoltre, prospettarsi come un evento non pienamente avvenuto, se non addirittura impossibile da avverarsi. La «cosa» è definita «un vano/sospiro», e cioè un desiderio irrealizzabile, e più avanti un «sospiro dolce/ e vile», dove l’incongruenza sta nel secondo termine rapportato allo stesso desiderio, descritto come un uscire da sé per vivere la vita di tutti gli uomini di tutti i giorni. Il vano sospiro è del pari definito una «sì grande/gioia», una gioia così intensa da non essere mai stata vissuta prima e, per la sua stessa straordinaria intensità, da non essere stata mai più neppure sperata. Nella quinta strofa, sopra citata per intero, la contraddizione è rafforzata dal «Ma» che cade a metà esatta della misura metrica. E che non è logicamente supportato. Infatti, nella parte che lo precede, esattamente come nella successiva, si afferma che il desiderio consiste nell’avere la fede di tutti e nell’intendere le parole semplici e i valori condivisi dagli uomini comuni, dunque nell’essere un uomo come gli altri. L’avversativa che apre la seconda parte della strofa risulta, dunque, immotivata. La menzione del «cantuccio», dell’«azzurro spiraglio», inoltre, è accompagnata da un «ahimè» ulteriormente incongruente. Perché soffrire del desiderio realizzato? Perché definire vano il desiderio che si realizza nello spiraglio del cantuccio? Perché l’esclamazione «ahimè», se questo è un istante di gioia totale e completa, addirittura la più grande provata da un giovane in quel momento malato, come recita la terza strofa?
Il presente, peraltro, è lontano da quelle epifanie di vani sospiri. È il presente dell’io che non sa uscire da se stesso, che non può smettere di patire, che aspetta la morte. Dunque il sospiro si configura anche come un sogno di sottrazione alla morte, e il vano desiderio come un cupio dissolvi che nasconde persino un latente memento mori. L’ultima strofa chiarisce questo senso, mostrando il ciclo della vita, con il ritorno dei «giorni/del fiore» nel Borgo e di un «travaglio estremo/di giovanezza» che spingerà altri giovani a voler immettere la propria vita nel flusso delle altre. Il desiderio impossibile, perciò, fa parte della vita di tutti, richiama una vita primigenia, prenatale, e insieme la consapevolezza della morte. Il borgo, allora, è anche figura di un ventre materno, di un utero nel quale si rinnova il flusso misterioso della vita. La poesia celebra la vita e insieme ne mostra la tragicità estrema. Anela alla morte, ma insieme ne mostra l’inesorabile insensatezza. Lo stesso desiderio è presentato contemporaneamente come liberatorio e come repressivo, perché impossibile da realizzare e in ultima analisi anche inutilmente realizzabile. Le contraddizioni nel tessuto testuale sembrano sussurrate sotto voce: mettono in luce la parziale insincerità di affermazioni che collidono, ma anche la loro circolarità in una catena significante che li costringe insieme, come termini reciprocamente ineludibili. La sottile e malinconica ironia è dovuta alla contemporanea verità e falsità di quanto l’io scisso afferma, di quanto egli ricorda della propria vita, e dello stesso borgo, che accoglie e insieme respinge, fa nascere e morire, restando indifferente all’oscillazione memoriale del soggetto.
Se la chiave del testo è offerta dal contesto integrale del Canzoniere, dal disegno generale di una storia dell’io radicato nell’ambivalenza dell’infanzia e nell’oscurità del dolore, qui, come altrove, l’incertezza regna sovrana, nella psiche come nella fenomenologia esistenziale raccontate dal dettato poetico. Il fascino ambiguo della poesia risiede proprio nella rappresentazione dell’ombra sfaccettata che si affaccia a offuscare ogni momento, ogni ricordo, ogni percezione della vita. Coglierne le sfuggenti sfumature di senso è insieme il viatico e l’insegnamento che Umberto Saba ha preordinato per il suo lettore, con estrema cura. Il piacere del lettore sta nell’apprenderli, di grado in grado, nella lettura del Canzoniere.
Margherita Ganeri
(n. 3, marzo 2013, anno III)
NOTE
1. G. Contini, Tre composizioni, o La metrica di Saba, in Id., Esercizi di lettura, Einaudi, Torino, 1974, p. 25.
2. R. Luperini, Umberto Saba e la poesia onesta. La vita, la formazione, la poetica, in R. Luperini, P. Cataldi, La scrittura e l’interpretazione. Storia della letteratura italiana nel quadro della civiltà e della letteratura dell’Occidente, Palumbo, Palermo, 1999, vol. 3, p. 755.
3. U. Saba, La spada d’amore. Lettere scelte 1902-1957, a cura di A. Marcovecchio, presentazione di G. Giudici, Mondadori, Milano, 1983.
4. U. Saba, Storia e cronistoria del «Canzoniere», in Id., Tutte le prose, a cura di A. Stara, prefazione di M. Lavagetto, Mondadori, Milano, 2001, p. 206.
5. M. A. Grignani, Introduzione, in U. Saba, Ernesto, Einaudi, Torino, 1975, p. XX.
6. I. Svevo, La coscienza di Zeno. Edizione rivista sull'originale a stampa, a cura di G. Palmieri, Presentazione di M. Corti, Firenze, Giunti, 1994, p. 380.
7. U. Saba, Storia e cronistoria del «Canzoniere», in Id., Tutte le prose, cit., pp. 128-9. |
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