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Benjamin Fondane, «Falso Trattato di estetica. Saggio sulla crisi del reale»
È in uscita presso l'editore Mucchi di Modena, a cura e traduzione di Luca Orlandini, la prima edizione italiana annotata criticamente del famoso saggio di Benjamin Fondane, Falso Trattato di estetica. Saggio sulla crisi del reale. In ciò che segue, Luca Orlandini segnala alcuni degli assi portanti del testo di Fondane.
«Ogni filosofia non è che un consiglio alla rassegnazione… Esprimere il raccapricciante, l’orribile, senza disprezzarlo, è un atto che va oltre la nostra idea di ‘sincerità’». (Fondane)
«La mia saggezza è disprezzata quanto il Caos», scriveva Rimbaud, poeta di cui Fondane si considerava un «petit frère». E come un tempo per Rimbaud, un certo silenzio ha avvolto l’opera di questo maverick esistenziale, un abbandono provvisorio. Ma a volte ritornano, a ricordare una verità non tanto occulta ma forse più necessaria della ricerca del Bene («la morale è estranea al Bello»), poco frequentata, scomoda: «Il est évident qu’il n’a pas été donné a tous les philosophes d’éprouver les vérités pressenties par Dostoïevski, Shakespeare. Mais ceux-là même qui en ont eu l’intuition véritable ont reculé de peur devant l’impasse logique, devant ses conséquences redoutable. Aussi ont-ils, pour nous persuader, essayé d’habiles arguments. Le monde a plus des droits que les individus d’occuper la Providence». (Fondane)
Come l’opera di Leopardi non è che «un commento al fenomeno della spiritualizzazione», analogamente e con le dovute proporzioni, tutto il frastagliato opus magnum di Benjamin Fondane (che con Leopardi condivideva non poche coincidenze ideali) non è altro che un ininterrotto saggio sulla crisi del Reale. Vera filosofia dell’assurdo, e dunque del tragico, Fondane riporta all’attualità l’autentico temperamento metafisico: «l’osmosi tra fisiologia, psicologia e metafisica» (ormai luogo comune letterario), la fertile alleanza tra biologia e gnosi nella lettura dei fenomeni del mondo e della vita umana, dove a dominare è la coincidenza di metafisica e lirica – come in Leopardi, infatti, per Fondane invenzione fantastica, contemplazione lirica e meditazione filosofica saranno indissociabili (e non come semplice ‘arte’, ma come potenza conoscitiva superiore alla filosofia, la quale, a sua volta, rappresenta la paralisi dell’immaginazione creatrice a favore della tirannia dei valorispeculativi), ben oltre ogni giustificazione dialettica.
Autore fondamentale per la cultura francese ed europea negli anni Trenta e Quaranta, poeta, filosofo esistenziale – unico vero erede diretto di Lev Šestov, non tanto ideale quanto ispirato –, drammaturgo, cineasta,maverick dall’esigenza spirituale oltre ogni quadro religioso stabilito, Fondane rappresenta la riposta individuale degli ebrei eretici e sovversivi del XX secolo. Senza essere un poeta «ebreo» è esistenzialmente ebreo e poeta, è stato detto; navigatore di terrae incognitae, limitrofo di Dio, un pensiero cresciuto come «l’erba, tra grigie e possenti lastre del pensiero», canta e pensa con una vitalità sorprendente e la sua vita si chiude come quella dei poeti di cui parla. Ricordando cosa è grande poesia, ricorda l’au de-là du livresque: il privilegio di alcuni «reprobi di rango», i migliori, veri filosofi dell’assurdo per mezzo del quale riaffiora il reale e con lui la tentazione di esistere realmente. Per chi ha orecchie per intendere, e per quanto paradossale, è una ricognizione oltre la specie «umanista». Un’esperienza scavata nel corpo che si fa pensiero: «Sì, nella vita perfino la calma e l’ordine offrono un’apparenza non pacificata, inquieta, o qualcosa di balordo, di incompiuto. Mentre nell’arte anche l’inquietudine e la tensione hanno qualcosa di pacificato e confortante. Certo, ammettiamo che dietro alla scenografia troviamo la parete nuda, la tela inchiodata grossolanamente, il vaso di colla, le pulegge abbandonate – quello che Baudelaire definisce ‘le charlatanisme inévitable de l’art’ – ma rifiutiamo di immaginare l’agonia, l’insonnia, l’umiliazione, l’angoscia e la bruttezza assoluta. Perfino quando parliamo di ‘l’envers du décor’, è ancora al rovescio artistico che pensiamo, al contrario di un décor, e non alla vita arbitraria che lo regge: una cosa è la vita, una cosa è l’arte. L’arte non è forse una difesa contro la vita? Un rifugio, un’evasione? Non è forse superiore alla vita?» (B. Fondane, Baudelaire e l’esperienza dell’abisso, traduzione e cura di Luca Orlandini, Aragno, Torino, 2013, euro. 25, pp. 452).
La sua «filosofia esistenziale» – che si distingue nettamente dall’esistenzialismo, dall’ideologia dell’esistenza, sua estrema specializzazione e degradazione – riporta all’attualità quella domanda che F. Schiller avrebbe posto all’alba del XIX secolo, nel suo Sulla poesia ingenua e sentimentale: qual è il modo d’essere dell’artista ingenuo nel mondo moderno sentimentale, filosofico? Fondane andava però oltre il «poeta» e l’«artista», il fatto semplicemente artistico, per abbracciare l’intera natura umana. E se Šestov, «maestro» di Fondane, portava avanti la lotta contro le evidenze con l’arma della fede, quest’ultimo cercava un’esperienza anteriore alla conoscenza: nei primitivi e nel mito, nella «carica di verità delle ‘prime’ mitologie», alla luce della problematica estetica. Autentico sub specie aestheticae, egli ritrovava la giustificazione dell’essere del mondo e della vita umana come fenomeno estetico e piacere creativo «immoralista», e non come specifica attività artistica (il sub specie aestheticae dell’estetologo o del critico, come anche dello spettatore-lettore). Da qui il Falso Trattato d’estetica.
Sebbene estraneo alla verginità ancora classica e settecentesca di Leopardi, proprio come quest’ultimo – che per molti aspetti sarebbe stato un Baudelaire e un Nietzsche avant la lettre (autori chiave per Fondane), nonché precursore dell’esistenzialismo –, Fondane è «una mente incapace di accettare i dati religiosi, filosofici, etici tradizionali, ma non meno profondamente ostile alle pretese liberatorie dell’Aufklärung», porta avanti, non meno tenacemente, la critica al cristianesimo e alla spiritualizzazione delle religioni positive – «lo spirito ha consumato la materia» lamentava Leopardi; entrambi muovevano dall’unica dimensione credibile del pensiero… l’Impossibile, accogliendo le obiezioni dell’assurdo, le ragioni dell’«irrazionalismo», come sosteneva altrove G. Rensi, senza mai scadere, tuttavia, in una qualche forma di visione dialetticamente più incoraggiante dei fenomeni del mondo e della vita umana – dote rara, soprattutto al giorno d’oggi. E ancora: la non meno opportuna centralità della teoria del peccato originale, come raccontata nel Genesi, vero banco di prova contro «il sapere che abbiamo del possibile e dell’impossibile» (il peccato è il Sapere), e dell’idea terribile che la poesia e l’arte partecipino al peccato originale. Vera Critica della Ragion Pura, al pari di quella di Dostoevskij. D’altronde, lo stesso Leopardi sosterrà, a più riprese, che i veri filosofi – i più profondi – sono massimamente anti-filosofici.
Fondane, esattamente come Leopardi, userà la filosofia come pars destruens. Diventerà filosofo per difendere la poesia, ovvero la creatività infinita della vita, usando la qualità eminente della modernità – l'iper-lucidità – contro la modernità stessa, per operare la ‘strage’ delle illusioni filosofiche, del vero speculativo. Analogo sarà l’appello alla forza evocativa delle prime mitologie, il guardare all’«aranitica valle» dei Patriarchi biblici, come scriveva Leopardi; la lotta fondaniana tra Atene e Gerusalemme mutuata dalla «filosofia della tragedia» di Lev Šestov, l’interesse per la Grecia rivolto, tuttavia, alla parte del pensiero greco non impigliato nella filosofia del Logos, la critica allo spiritualismo e al formalismo occidentale, l’appello alla poesia, all'immaginazione, al lirico; la sua reazione antidialettica e antistoricista, il suo guardare alle determinazioni metafisiche dell’arte – il magico e il religioso ecc.
Di più, benché sia stato definito l’«estremo in grande stile», Fondane fece presto i conti anche con lo Stile, nonostante fosse tutt’altro che insensibile alle analisi formali che soddisfacevano «nella capacità che ha lo Stile di sottoporre a un superiore sigillo le idee», come avrebbe scritto G. Macchia su Baudelaire. Era semplicemente andato oltre la «perfezione formale», in quel territorio – autentico sub specie aestheticae – in cui stile e vita si confondono, per cui il primo riceve giustificazione dalla seconda, e non in sé, come pratica artistica, ma esistenzialmente. Invano cercheremmo in lui il demone dello stile di un Mallarmé o di un Valéry, la «suffisance esthétique». Fondane aveva piuttosto un tono: «È il tono quello che soprattutto conta. Si ha un tono, non soltanto come musicisti, ma in generale, per ogni cosa che si fa. Molto spesso c’è una mancanza di tono, il tono semplicemente non c’è… non se ne avvertono le estensioni». (Cioran)
Mentre David Gascoyne, che lo aveva conosciuto e lo ammirava, a proposito della voce di Fondane scriverà: «prende alle viscere, provoca un brivido lungo la schiena, scuote i nervi… vi sono delle voci che possiedono un timbro speciale, unico, che toccano alla maniera di certe note con il potere di far esplodere i bicchieri a causa delle singolari vibrazioni delle loro onde»; è «qualcosa che non si può inventare, qualcosa che nasce insieme con noi… una grazia ereditata, il privilegio che certuni possiedono di far sentire la propria pulsione organica», scriverà Cioran. Vi era unamusica in Fondane – come del resto in Cioran – nel senso in cui una volta si parlò della musica di Leopardi; un «suono dell’infinito», malgrado i due romeni, rispetto a Leopardi, fossero autori di poco più che «frasi scucite». E sappiamo che nell’ambito della parola poetica il genere che si avvicina di più alla condizione e alle caratteristiche della musica è il Lirico… «Carnap ha detto una cosa profonda: ‘I metafisici sono musicisti privi di dono musicale’» (Cioran).
Fondane e Cioran furono legati da profonde affinità a un «esistenzialismo» originario e irriducibilmente inattuale, come dalla loro comune ammirazione per Lev Šestov, e da una altrettanto comune filiazionedai maestri dell’arte di pensare contro se stessi – Pascal, Kierkegaard, Baudelaire, Nietzsche, Dostoevskij. È questa inattualità di ieri a renderli, ancora oggi, così attuali e inesauribili per noi. Rappresentano «un assoluto che non è consigliabile accogliere, ma che è anche disdicevole respingere» (Cioran): i metafisicamente single, i misologos. Un’esperienza «spietatamente risanatrice», come avrebbe scritto G. Ceronetti sulla scrittura e il pensiero di Emile Cioran.
Il primo scriverà nel suo Baudelaire: «verrà il tempo in cui bisognerà tenere conto dei sillogismi vivi che non figurano nei trattati di logica». Mentre Cioran, poco più che ventenne, in Sulle cime della disperazione (1934): «Di fronte all’uomo astratto, che pensa per il piacere di pensare, si erge l’uomo organico, il pensatore determinato da uno squilibrio vitale… al di là della scienza e l’arte… Gli uomini non hanno ancora capito che il tempo delle preoccupazioni superficiali e intelligenti è concluso, che il problema della sofferenza è infinitamente più rivelatore di quello del sillogismo, e un grido di disperazione infinitamente più rivelatore di un’osservazione sottile… Perché non vogliamo ammettere il valore esclusivo delle verità viventi?» O come in uno dei suoi primi testi francesi, La vogue de la mort dans la philosophie contemporaine, nel quale scriverà: «la philosophie capitule au moment où elle s’ouvre à l’homme».
Come scriveva G. Rensi in Filosofia dell’Assurdo: «Il miracolo non è che l’assurdo scorto dal punto di vista di chi crede, e l’assurdo non è che il miracolo scorto dal punto di vista di chi non crede». Mentre Fondane, a sua volta, scriverà che alcuni questioni: «ne se posent pas dans la lumière de la sagesse, mais dans une nuit, soudaine devenue si noir, que vous arrivez vous-même à vous croire aveugle» (La Conscience malheureuse), poiché «è duro portare il severo messaggio che la poesia è legata alle vecchie superstizioni, al pensiero dei primitivi, e alle passioni fino a oggi attribuite alla carne. Eppure, è proprio questo il compito che l’abisso propone…» (Baudelaire e l’esperienza dell’abisso). L’Estetica letta con gli occhi di Dostoevskij.
Luca Orlandini
(n. 11, novembre 2014, anno IV)
Di Luca Orlandini è uscito, sempre per la Aragno, in parallelo al Baudelaire di Fondane, un saggio critico proprio sulla monografia baudelariana, che costituisce, di fatto, la sua estensione critica, il suo controaltare: Luca Orlandini, La vita involontaria. In margine al Baudelaire e l’esperienza dell’abisso di Benjamin Fondane, Aragno, Torino, 2014, pp. 330.
Sempre per l’editore Nino Aragno, uscirà a dicembre 2014 un altro libro capitale di Benjamin Fondane, La coscienza infelice, sempre a cura e traduzione di Luca Orlandini, tradotto dalla prima edizione annotata criticamente appena uscita in Francia, per l’edizione Verdier/Non Lieu (curata da Olivier Salazar-Ferrer e Nicolas Monseu).
Per la ricezione italiana di B. Fondane, è in uscita un importante volume monografico, Titanic n. 2 ottobre 2014(«Revue annuelle des études fondaniennes» de L’Association Benjamin Fondane), intitolato appunto La réception italienne de Fondane.
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