Ana Blandiana e le metamorfosi del mondo

Ana Blandiana è lo pseudonimo di Otilia Valeria Coman, nata a Timișoara, nel Banato romeno, nel 1942. Negli anni in cui in Romania il Comunismo regge le coscienze e condiziona ogni più piccolo atto pubblico e privato, scrive una poesia che viene scelta per essere pubblicata nel giornale del Liceo. Ma qualcuno ricorda che Otilia era «figlia di un nemico del popolo»: suo padre Gheorghe («il bambino di nome papà», il tragico «Gheorghe» della sua poesia Requiem) era stato prete ortodosso. Così la pubblicazione della sua prima opera viene bloccata. «Sono stata vietata prima ancora di essere poetessa» commenta Ana Blandiana. Nell’alternarsi di periodi di rigore e di timide aperture del regime, le viene “permesso” di iscriversi alla Facoltà di Filologia di Cluj. Continua a scrivere poesie, entra nell’Unione degli Scrittori, si trasferisce a Bucarest. Le sue poesie, e presto anche la sua prosa, si impongono al pubblico. È spesso censurata, ma ancora più spesso premiata con le più alte distinzioni in Romania e, presto, all’estero. Dopo aver ottenuto i più prestigiosi riconoscimenti letterari in Romania, nel 1982 ottiene il Premio Herder all’Università di Vienna. Entra, con altri intellettuali, nell’area del dissenso al regime. Alcune sue poesie di aperta denuncia (1984), filtrate attraverso le maglie della censura, destano enorme emozione. Le copie pubblicate vanno a ruba. Ma ricopiate a matita su migliaia di foglietti che passano di mano in mano, le poesie di Ana Blandiana, come quelle di altri poeti dissidenti, raggiungono un pubblico vastissimo. Bisogna sapere che ogni macchina da scrivere e ogni fotocopiatrice era inventariata in un registro della polizia segreta. La copiatura e ricopiatura a mano è stata così una forma di samizdat che ha garantito la libertà di leggere e di pensare a milioni di persone nell’Europa centro-orientale per decine d’anni.
Le conseguenze non tardano a venire. Per tre periodi ad Ana Blandiana viene impedito di scrivere, tra il 1960 e il ’64, nel 1985, tra il 1988-89. Quest’ultima data è ormai quella della caduta del regime. Quando il Comunismo in Romania viene rovesciato nel sangue, Ana Blandiana si getta con passione nella lotta politica, eroica, drammatica e confusa di quegli anni. Quella che in gioventù era stata l’autrice di Prima persona plurale, diventa la Giovanna d’Arco della nuova Romania. Porta nell’atmosfera avvelenata della lotta politica un vento di purezza e di speranza. È tra i fondatori dell’“Alleanza Civica”, movimento di opinione ma anche partito politico, la cui prova come partito di governo (in cui peraltro Ana Blandiana non era presente) è purtroppo fallimentare. Opponendosi a chi vuole dimenticare troppo presto, fonda a Sighet il Memoriale della Resistenza e delle vittime del Comunismo. Ammirata e venerata da molti, è un punto di riferimento costante per alcuni, una stella fissa di un orizzonte troppo spesso oscuro, e invisa ad altri, così come deve essere.

Questa è Ana Blandiana, la personalità che sta dietro a questi foglietti di viaggio che i lettori romeni hanno cercato e divorato per anni in «România literară», la rivista culturale più letta del paese (la Romania ne aveva, e ne ha ancora molti, di giornali letterari e culturali, segno di una vitalità intellettuale che non può non sorprendere nel nostro arido Occidente).
Nel presentare Ana Blandiana ho dovuto necessariamente mettere in rilevo la sua personalità civile, ma Ana è prima di tutto la sua poesia. Il lettore italiano ha già potuto conoscerla dalle due belle e ricche raccolte di poeti romeni del Novecento del romenista torinese Marco Cugno (la prima con Marin Mincu) [1], poi da un libro interamente dedicato a lei, che porta il titolo di un verso di una sua poesia: Un tempo gli alberi avevano occhi. [2] Ma la sua prosa è altrettanto importante. È autrice di un romanzo (Il cassetto di applausi, inedito in italiano) e di molti racconti. Quelli raccolti in Progetti di passato, potrebbero apparire in un posto d’onore in una nuova antologia di Borges, Cristina Ocampo e Bioy Casares dedicata alla letteratura fantastica mondiale. Il lettore italiano interessato non ha che da servirsi: sempre Marco Cugno ha allestito una magnifica raccolta Progetti per il passato e altri racconti, pubblicata da Anfora, Milano, 2008.

Ma veniamo al nostro libro. Mauro Barindi, autore della bella e amorosa traduzione, ha descritto nella sua breve Nota Redazionale, le circostanze dei pezzi che lo compongono e la loro successiva raccolta in diversi volumi.
Per essere dei foglietti di appunti, scritti in fretta dopo giornate faticose di viaggio, queste pagine appariranno certamente al lettore tutt’altro che superficiali e brillanti, come ci si potrebbe aspettare. Una sorprendente serietà ha presieduto alla loro nascita. Sappiamo anche come e perché, dato che la scrittrice ce lo racconta (Camere, corridoi, scale, mansarde e Verso sera). Ogni sera, dopo una giornata dedicata interamente a vagabondare per una città, sulla riva di un lago, a visitare un castello, la scrittrice, digiuna o dopo aver mangiato frettolosamente, si mette al tavolino e scrive. La stanza, che appartiene quasi sempre a un albergo di quart’ordine, è fredda, rumorosa. La scrittrice è sola, o è sorretta dalla presenza angelica del marito Romulus Rusan (si riferisce certamente a lui, credo, il «noi» usato nelle pagine), che condivide con lei il sacrificio, e spesso l’entusiasmo della scoperta, o l’inquietudine generata delle cose viste. Come il giornalista polacco Ryszard Kapuściński, che è stato il migliore osservatore dell’Africa in quanto corrispondente dell’agenzia di stampa di Varsavia che non gli versava un quattrino (anche lì a causa del Comunismo con la sua indigenza!) costringendolo a pernottare nelle capanne e a curarsi dalla malaria senza i benefici concessi ai bianchi, così Ana Blandiana ha girato il mondo da romena povera. Questo le ha permesso di vedere di più, non di meno. Il suo primo viaggio in Finlandia, per prendere parte a un raduno di poeti in onore del Comunismo, avviene senza che un solo dollaro riempia la sua tasca… e che una sola illusione le baleni davanti agli occhi. Scrivere per lei non è un piacere, ma un dovere che si impone duramente, quasi un sacrificio. Questo sacrificio è offerto a una divinità che la scrittrice non nomina… La Verità? La Letteratura?

Molte pagine di questo libro sono di una qualità stilistica superiore, i periodi sono flessuosi, opulenti, le similitudini si moltiplicano. I pezzi si concludono spesso con pointes acute, con sentenze sorprendenti. E il contenuto…
Il contenuto, per un lettore attento, è spesso sorprendente. Davanti agli occhi di Ana Blandiana sfilano decine e decine di paesaggi: castelli e ville, città e coste, fiumi, il deserto. Vie e viali con i loro cartelli pubblicitari, le loro pompe di benzina, l’asfalto bagnato o infuocato. Ma uomini, uomini non ne appaiono mai. Semmai folle anonime, assembramenti. Ma una persona che parli, mai. Non c’è nessun dialogo: interlocutori, accompagnatori, guide sono espunti. Paesaggi senza figure. Mi chiedo se nel genere «letteratura di viaggio», in cui comunque dobbiamo inserire quest’opera, ci sia mai stato un caso simile. Ci sono tuttavia alcune eccezioni a questa regola come, per esempio, nel bellissimo pezzo Sguardi, la coppia di viaggiatori romeni incontra in treno gli occhi silenziosi dei compagni di viaggio, dei contadini spagnoli, che li fissano con curiosità indiscreta. Il treno corre la sera da Valencia a Murcia. Non una parola. Ma una «comune gioia» quando un minuscolo sole sferico appare sull’estremo orizzonte, e gli occhi dei contadini, come quelli dei due romeni, si sono spostati su quel «miracoloso tramonto».
Paesaggi, ho detto. Ma queste pagine non commentano solo paesaggi, la tavolozza è più varia. Ci sono visite a Musei, vengono rievocate figure di pittori e scultori, personaggi letterari (Don Chisciotte), e, avvicinandosi all’attualità, soprattutto in America (il Mondo Nuovo), la realtà quotidiana più esteriore: ecco l’invadente pubblicità murale che cancella il paesaggio, le scritte sulla metropolitana, i blue jeans.
Quanto ai paesaggi, che costituiscono comunque il cuore dell’opera, sembrano talora coinvolti in quei sinistri processi di metamorfosi che Ana Blandiana ha così spesso rappresentato nei suoi racconti fantastici. Il minerale si fa vegetale, il vegetale minerale, ciò che è opera dell’uomo appare come opera della natura e viceversa. Così la maestosa morfologia del Gran Canyon si trasforma sotto gli occhi della scrittrice in un paesaggio di cattedrali e anfiteatri (Gran Canyon), New York vista dall’alto sembra fatta di giocattoli di giganti bambini (Commiato).  A San Gimignano delle colonne di fumo di sterpi rivaleggiano con le alte torri, della cui storia l’autrice si disinteressa. La pagina dedicata alla cittadina toscana si apre e si chiude con un fiore, una bocca di leone raccolta tra le merlature di una torre e portata sul davanzale di casa a Bucarest (Bocche di leone). Tbilisi e la sua cattedrale le sembrano avere la complessità di un melograno, un paragone che è ispirato certamente all’autrice dal tema che sta trattando, quello dei mercati delle città, un tema che ci porta da Siviglia a Fergana (nell’Uzbekistan), a Venezia, a Tbilisi, appunto, a Firenze, a Barcellona, a Napoli (Al mercato). Naturalmente non potevano non colpire la scrittrice le ossa di morti che vengono a costituire in una località dal nome dimenticato della allora Cecoslovacchia l’intero mobilio di una cappella: scanni, altare, candelabri, acquasantiera… (Ricordo anonimo). E altrettanto naturalmente non poteva non affascinarla il mito romeno di mastro Manole, in cui solo un sacrificio umano può dar vita a un edificio, mito che la scrittrice rivive sotto un sole accecante nei templi di Samarcanda: l’origine di quelle straordinarie costruzioni viene riportata tradizionalmente a un mito simile a quello romeno (Mastro Manole).

L’Italia occupa un posto speciale nella visione di Ana Blandiana. È forse il paese dove si realizza più spesso il «miracolo» che è l’obiettivo di tanto viaggiare, come scrive l’autrice nel pezzo introduttivo Il più bello dei mondi possibili. La Toscana e Firenze, soprattutto. Tra i pezzi più belli c’è L’esilio e il regno: l’autrice, che ha visitato a Firenze la casa di Dante, nota la simbiosi straordinaria tra il poeta e la sua città. Firenze è una città dove «non si cancella nulla, né i nomi delle strade, le stesse dell’epoca in cui visse Dante, né la bellezza impressa su ogni singolo sanpietrino o muro, né le passioni fissatesi nei libri, nelle statue, nei dipinti, nei roghi.» Dante e la sua città appaiono alla scrittrice come due grandezze commensurabili, avvinte e contrapposte una all’altra da “un intreccio di vincoli” che li tengono ancora insieme «nell’amore e nell’odio».
Nessuna unità temporale congiunge i pezzi che leggiamo qui. Sarà impossibile ai posteri, a meno di non ricorrere ad altri documenti, ricostruire l’ordine e la cronologia dei viaggi che hanno dato origine a queste pagine. Si ha l’impressione, anzi, che ci sia stato un rimescolamento delle carte, secondo un piano misterioso che al lettore non appare. Tuttavia una prefazione e una conclusione, Due volte in Finlandia, incorniciano le tante pagine disperse, introducendo un inizio di principio d’ordine, fornendo comunque un inizio e una fine. Ma il Ritorno in Finlandia, più che concludere il libro, lo apre verso un’altra prospettiva, che era stata assente fin qui. La prima uscita nel 1966 di Ana Blandiana fuori dal mondo socialista, era stata a Lahti, in Finlandia, dove, come ho già ricordato, un congresso di poesia si era rivelato in realtà un incontro internazionale di amici del Comunismo. Il ritorno a Lahti ventinove anni dopo, allo stesso convegno di poeti che si ripete da allora di anno in anno, è l’occasione per un’amara accusa all’insensibilità del mondo occidentale verso la tragedia dei paesi sottoposti alla dittatura comunista. L’opera di Solgenitsin, ricorda Ana Blandiana, era già apparsa allora in Occidente, e nessuno poteva più dire di non sapere. Posso non condividere qui del tutto l’accusa di Ana Blandiana? Io penso (e so, perché ne ho conosciuti tanti) che quei comunisti occidentali erano in gran parte persone disinteressate, che non traevano nessun beneficio dalle loro posizioni politiche. Le professavano in paesi in cui il Comunismo era all’opposizione o addirittura vietato e molti avevano certamente da soffrirne, non da guadagnarne. Erano ingannati loro stessi, non complici.
Chiudendo queste righe, non posso trattenermi qui da un ricordo personale [3]. Era il luglio 1990, appena dopo la caduta del regime. Mauro Barindi ed io siamo a Bucarest. Per tutti e due è la prima visita dopo la caduta dalla dittatura. Il paese è semidistrutto, come se uscisse da una guerra. Ana Blandiana, con la quale ero in corrispondenza, ci aveva invitato a stare da lei un giorno nella sua bella villa (ma semidistrutta, anche lei) di Strada Transilvaniei. Mentre ci accompagnava per Bucarest, delle donne l’avevano fermata per salutarla e baciarle la mano. La sera, lei e l’adorabile marito Romulus Rusan, erano tutti per noi. La speranza del rinnovamento, della redenzione aleggiava attorno a noi. La mattina ero stato svegliato dal canto dei galli, che avevano ripopolato una Bucarest ruralizzata occupando giardini e balconi. Più di vent’anni dopo sono felice di ritrovarmi ancora una volta assieme a Mauro Barindi in questa impresa editoriale che ha al centro ancora una volta la grande poetessa, scrittrice e nostra generosa ospite Ana Blandiana.






Lorenzo Renzi
(n. 6, giugno 2012, anno II)


NOTE

[1] Nuovi poeti romeni, a cura di Marco Cugno e Marin Mincu, Firenze, Vallecchi, 1986, La poesia romena del Novecento, studio introduttivo, antologia, traduzione e note a cura di Marco Cugno, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1996.
[2] Un tempo gli alberi avevano occhi, a cura di Biancamaria Frabotta e Bruno Mazzoni, Roma, Donzelli, 2004; cfr. Dan Octavian Cepraga, Appunti sulla poesia di Ana Blandiana, “Poeti e poesia”, vol. 5, 2005, pp. 181-187.
[3] Ho già raccontato questo episodio in Diario di Romania in Le piccole strutture, Bologna, Il Mulino, 2008, pp. 563-565.