«Dalla Romania senza amore», il romanzo di Anca Martinas

Fra i nomi che ci propone la letteratura migrante romena in Italia c’è anche quello di Anca Martinas, autrice del libro Dalla Romania senza amore (Robin Edizioni, 2009). Nata nel 1970 a Roman, una piccola città romena, la Martinas si laurea in Assistenza Sociale e in Teologia all'Università di Bucarest e coltiva contemporaneamente la passione per il giornalismo scritto e radiofonico. Successivamente si diploma in Comunicazioni Sociali alla Pontificia Università Gregoriana e, dal 2004, si stabilisce a Roma dove lavora come redattrice e speaker nella sezione romena della Radio Vaticana. Dalla Romania senza amore è il suo primo romanzo in italiano che si aggiunge ad altri due libri in lingua materna. Ce lo presenta la scrittrice Laura Rainieri.




Il libro di Anca Martinas intitolato Dalla Romania senza amore (Robin Edizioni, 2009), nel raccontare le vicende di due personaggi femminili, attraversa la storia dell’ultimo ventennio romeno, dopo la caduta di Ceausescu, con incursioni nel periodo dittatoriale attraverso le memorie e i ricordi dei personaggi. È un libro agile, di sole 124 pagine, per quanto senso contiene, dove i personaggi sono ben delineati e il lettore ne insegue la storia come per i migliori romanzi.
La vicenda è calata nella realtà odierna e chiama in causa la Romania, da cui le due protagoniste provengono, e l’Italia terra di approdo. Lo stile è veloce, mai trascurato, asciutto e non sovrabbondante. Aiuta l’Autrice, forse, l’abitudine allo stile giornalistico che, se vuole comunicare, deve essere sobrio e pieno di senso. Ciò offre un’ulteriore parvenza di verità alla storia già di per sé ʻveraʼ, o meglio ʻverosimileʼ,  come direbbe il nostro Manzoni.
Se apriamo i giornali o ascoltiamo la televisione, quasi ogni giorno c’imbattiamo in tristi storie di immigrati e ancor più di immigrate. Tanto che un italiano non vi pone la dovuta attenzione, come se fossero episodi di cronaca nera ineluttabili. Le donne ammazzate, italiane e straniere, sono all’ordine del giorno, delitti tanto efferati che si è sentito il bisogno di istituire, in Italia, la giornata contro il femminicidio.
Alle donne uccise manca spesso un volto, cioè un’identità e uno spessore, e manca un volto anche alle tante migranti che collaborano nelle nostre famiglie e che si occupano dei nostri cari. A ciò può ovviare la letteratura che ha lo scopo di creare e approfondire il personaggio e l’ambiente in cui si muove.

Uno spunto per ulteriori interrogativi e riflessioni

Il libro della Martinas ha il merito di gettare un fascio di luce su storie risapute e di inchiodare il lettore alla riflessione. Penso che l’intento del libro sia di spiegare, attraverso brevi storie parallele a quella principale e con incursioni nel passato, che il popolo romeno (un popolo di per sé pacifico, che è riuscito ad amalgamare i popoli e le molte etnie che lo hanno formato), dedito prevalentemente all’agricoltura, di punto in bianco spogliato di ogni bene materiale e morale, durante e appena dopo la dittatura, è divenuto per necessità di sopravvivenza un popolo ʻnomadeʼ. Ha negli occhi il vuoto d’amore per esserne stato privato: ciò spiega il titolo Dalla Romania senza amore.  
Il libro si apre con una data: 1995, il sesto anno dalla caduta del regime di Ceausescu. Le città interessate sono Roman, una città della Moldova, patria delle due migranti (terra natale anche dell’Autrice) e Roma, la città dell’approdo. Il gioco e la quasi omonimia dei nomi Roman-Roma genera una felice confusione, un’attrazione quasi naturale verso l’Italia, in quella «Roma Caput mundi» che ha dato il nome alla cittadina di «Roman» e impresso un destino ai suoi abitanti (i latini dicevano: nomen omen, e l’Autrice pare convinta che vi sia un destino nel nome). Terra per altro molto amata dai romeni, come dice la Martinas, sia da antichi studiosi, orgogliosi della discendenza del popolo romeno dai romani, sia da gente umile.
Il popolano Ion Stoica, della Moldova romena, si fece monaco a Napoli nel convento di Sant’Eframo Nuovo, con il nome di Geremia, dove giunse nel 1578 dopo varie traversie di viaggio durato tre anni, per essere più vicino al Papa e per meritarsi il Paradiso. Nel 1983 la Chiesa Cattolica lo incluse tra i Beati. Questo tra l’altro non meraviglia chi ha visto come me i molti monasteri moldavi greco-ortodossi, isole di solitudine e di preghiera, nati proprio all’epoca di Ion Stoica. O l’altro, il pastore Gheorghe Cartan che nel 1896 partì a piedi per Mamma Roma per vedere la Colonna di Traiano dove sono scolpiti i suoi avi Decebalo e Traiano.
Una terra, l’Italia, di cui in Romania si favoleggiava, allungata nel mare, un sogno galleggiante con un popolo ospitale che accoglie benevolmente lo straniero: dunque una meta privilegiata, un Eden perduto a cui ricongiungersi. Questi sono i sogni che qualche migrante ha realizzato. Lia per esempio, una delle protagoniste del libro, ha potuto sia pure con difficoltà, studiare all’Università, sposarsi e trovare una vita serena. L’altra, Daria, è l’eroina tragica, sfortunata in patria e in Italia, incapace di subodorare il male e dunque di evitarlo, che s’illude che la gente sia generosa e sincera: per questo si trova invischiata in storie drammatiche impreviste e da cui non riesce a uscire. A volte il male viene dagli italiani come la famiglia che la ospita nel Veneto, una donna malata che la dissangua con le sue richieste e le toglie ogni capacità di azione e di giudizio, tanto da indurre la protagonista al desidero di sopprimere la padrona.
Lia e Daria: la faccia della stessa medaglia. Una volta lasciata la propria terra, si può fare fortuna o essere ridotti peggio che in patria e anche essere uccisi. Per rappresaglia o altri motivi il corpo di Daria verrà trovato bruciato nelle campagne venete. L’accusa che si fa alla donna, una volta giunta a Roma, è di ricettazione e incitamento alla prostituzione minorile romena, quando lei stessa, bugia dopo bugia, è stata tratta in una casa d’appuntamenti con l’intimidazione di non denunciare nulla e di stare a bocca chiusa, se voleva salvare la sua pelle, quella dei genitori e del figlioletto. Lei denuncia e da qui scatta la persecuzione, l’incapacità di difendersi da pesci molto più grossi di lei, e l’estradizione per cinque anni dall’Italia. Ma su quella donna innocente e indifesa cade un barlume di luce, quando a Roma incontra l’amato Daniele da cui avrà un figlio, Dany. Il compagno morirà però nel Kosovo e lei ricadrà nel buio più pieno. Sono pagine delicate e avvincenti quelle dedicate all’amore per il figlio e per il compagno.

Una storia dentro un viaggio

Noi, lettori, siamo informati della storia delle due donne ascoltando le confidenze delle due protagoniste sull’autobus, in 48 ore di viaggio, tanto ne servono da Roman a Roma. Daria questa volta viaggia clandestinamente per potere trovare un lavoro in Italia e mantenere il figlio lasciato nel frattempo presso i nonni in Romania. Ma la longa manus della vendetta, nonostante tutti i passeggeri abbiano unto autisti e caporioni per passare le frontiere, seguirà Daria per consegnarla a una tragica fine.
L’Autrice approfitta dello spazio del viaggio per raccontarci la situazione da cui le due donne sono in fuga. Per informarci che Lia nonostante gli studi non ha trovato lavoro a Roman perché servivano le mazzette e le tessere e i ricatti e i capi erano gli stessi del tempo di Ceausescu. Se uno trovava lavoro, come Daria, in un negozio alimentare, voleva dire che la padrona gli aveva insegnato a rubare, a mettere da parte, a ingannare. O che il padrone ti voleva come amante, come successe sempre a Daria, blandita da piccoli e grandi regali, per poi essere scaricata quando la situazione poteva dare fastidio, a calci e a pedate nonostante un figlio in grembo.
O come successe a Radu, il fratello di Daria che a vent’anni era costretto a subire ogni tipo di angheria nelle fabbrica dove lavorava, a tacere di fronte alle ruberie dei capi, dove le cose erano messe in modo che, di fronte a un’eventuale indagine, la colpa sarebbe ricaduta solo su di lui.
O come successe a Lia che, felice di avere vinto il concorso come assistente sociale, assiste i vecchi che deliberatamente vengono privati delle case e messi al lastrico, e dove l’Assistenza pubblica, insufficiente e corrotta a sua volta, non ha spazio per tutti.
Anche i bambini e le bambine brancolano per le strade e nei tombini in preda alla fame, alle droghe, e a tutto quello che si può immaginare. Scenari di film da medioevo, o da Miserabili, con la differenza che le cose sono ancora in parte così, l’Autrice ci avverte.
Peggio poi toccava ai nonni quando poveri in canna e con otto o nove figli, come la nonna di Lia, dovevano per forza cedere la poca terra allo Stato e perdere ogni libertà e per di più la beffa: Felice di avere ceduto la terra alla Cap di sua spontanea volontà per il futuro luminoso...
Se tutto ciò riguardasse un passato lontano, cioè fosse storia, meno ci addolorerebbe, sembra dire l’Autrice. Ma riguarda un passato recente e il presente.
Uno scrittore, come la Martinas, non può che rivendicare la possibilità di raccontare e di estenderne la conoscenza ad altri Paesi. L’impegno che si è assunta non è di poco conto.
Forse per ammorbidire il contenuto del libro, la storia ha un risvolto lieto, che per altro fa presagire un futuro migliore per le giovani generazioni romene cui appartiene il piccolo Dany. Egli con amore e generosità verrà preso in custodia da Lia e da suo marito, per assicurargli quel futuro che Daria sognava per lui.



Laura Rainieri
(n. 4, aprile 2014, anno IV)