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«Al di là della montagna»: Norman Manea e il dialogo immaginario tra Celan e Fondane
Al di là della montagna: si intitola così l’ultimo libro di Norman Manea (tradotto e curato da Marco Cugno, il Saggiatore, Milano 2012), il cui sottotitolo recita: Paul Celan e Benjamin Fondane, dialoghi postumi. Siamo in presenza di un testo che costituisce una sorta di luogo immaginario dell’incontro di due ebrei nati in Romania nello stesso mese, accomunati dalla medesima condizione dell’esilio e dallo stesso destino nel fuoco e nelle acque della catastrofe.
L’autore, Norman Manea, anche lui romeno di origini ebraiche, partendo dal testo di Paul Celan, Gespräch im Gebirg (Conversazione nella Montagna) del 1959, scritto dopo il mancato incontro con Theodor W. Adorno, ha ideato un dialogo tra i due poeti nella posterità della parola, trovando uno spazio per l’interlocutore, oggetto di disperata ricerca da parte di entrambi. In questo dialogo, infatti, i due poeti interloquiscono tra loro. Celan e Fondane diventano, ognuno a suo modo, il destinatario l’uno dell’altro: «Nella Valle di Lacrime in cui transita l’errante da sempre e della cui desolazione sono stati vittime sia l’uno che l’altro interlocutore, il Supremo è divenuto un Nessuno ammutolito».
Vittima dell’arretratezza culturale del suo paese, Fondane lascia la Romania all’età di venticinque anni. Dopo il suo espatrio, verrà pubblicata nel 1930 la raccolta di poesie Privelişti (Vedute), in cui il lettore viene a contatto, sulla scia di Eminescu, con quel «pustiu», quella desolazione della Moldavia rurale dove la natura non agisce, dove nulla accade, e in cui, come scrive Fundoianu in E ziua cea din urmă (È l’ultimo giorno), «la strada maestra conduce soltanto da Herţa a Fundoaia».
Il paesaggio muto e gli uomini sordi impediscono la condizione della parola producendo un silenzio immobile che si vetrifica e diventa così duro da distruggere. Questo silenzio di cristallo si trasformerà, nel ciclo di poesie Atemkristall di Paul Celan, in un respiro, anzi «in un cristallo di respiro», che attende «l’immutabile testimonianza» di un tu privo di morte.
Le parole di Fondane erano state forse scolpite nella memoria di Celan, come testimonia una cartolina spedita a Petre Solomon da Budapest, a partire dalla dimensione spirituale dell’esilio, quando il poeta bucovino, ormai deciso a partire per Vienna in cerca di nuova fortuna, lascia definitivamente Bucarest, diventata un luogo di contrarietà e restrizioni per i poeti dopo l’avvento dello stalinismo. Solo nella madrelingua, Paul Celan diventerà uno tra i maggiori poeti dell'ultimo secolo, con il merito di aver riacceso la parola poetica dopo Auschwitz.
Norman Manea si chiede come potrebbe avvenire un dialogo tra Fondane, «volubile e frenetico», e Celan, piuttosto «silenzioso». Secondo l’autore di Al di là della montagna, intensi sarebbero stati gli scenari dell’incontro dove poter ancora evocare il sangue e la cenere della vergine Sulamita, la neve, il vino e il latte nero, al di là dell’inquietudine e della morte. L’eloquente silenzio delle poesie di Fondane allestisce qualcosa di eccessivo per essere immaginato o temuto. Esso sembra presagire l’imminente sciagura, il grande tema della catastrofe che ha ispirato ambedue i poeti, li ha annientati ed infine uccisi.
Nell’ottobre del 1944 Fondane decide di seguire la sorella Lina nei campi di stermino. Nel libro di Manea si legge che la morte di Fondane, analogamente a quella di Celan, «può considerarsi anch’essa un suicidio, se teniamo presente la sua decisione di rifiutare la salvezza che gli era stata offerta». Infatti, la fine dell’uno può ricondursi a quella dell’altro. Celan, circa vent’anni dopo, ripete il gesto del primo, anche se in maniera differente, inabissandosi tra le acque della Senna. Attraverso la sua poesia, egli riuscirà ad evocare l’orrore dei lager nazisti, divenendo il testimone della «combustione totale», anzi farà qualcosa di più: riuscirà a dare prova di una morte possibile anche dopo la sopravvivenza.
Inclusi nel libro si trovano i Riferimenti montani, un’accurata antologia di scritti esegetici e testimonianze su Fondane e Celan da parte di autori diversi. Norman Manea realizza un vero e proprio collage di frammenti di vari libri, a partire da Petre Solomon, in cui si parla della sua opera di traduzione a quattro mani con Paul Celan di Tangoul Morţii fino a Jacques Derrida con parti estratte da La vérité blessante, e Schibboleth, in cui si leggono indicazioni significative per la comprensione della poesia di Celan e della questione ebraica. È possibile trovare anche un estratto de La neige tragique di Gisèle Vanhese, dove riportando alcuni versi della raccolta Privelişti si pone ripetutamente a confronto la poesia di Fondane con quella di Celan. I Riferimenti montani ospitano inoltre alcuni brani della testimonianza di Emil Cioran su Fondane, contenuti in Esercizi di ammirazione, in cui si legge: «Cercare era per lui più che una necessità o un’ossessione, cercare incessantemente era una fatalità, la sua fatalità, percepibile perfino nel modo di parlare […]. Somigliava ad un asceta di una vivacità prodigiosa e di un brio che faceva dimenticare – mentre parlava – la sua fragilità e vulnerabilità».
Il libro contiene infine una preziosa intervista a Ilana Shmueli, anch’essa romena nata a Cernăuţi (Cernowitz) ed emigrata in Palestina, dove scriverà poesie nella lingua ebraica. Ilana era amica d’infanzia e adolescenza di Paul Celan. Tra di loro esisteva grande affinità, avevano «la stessa ambiguità, la stessa volubilità e lo stesso spirito di contraddizione». La Shmueli descrive il poeta come uno spirito contemplativo, dotato di una tristezza particolare sin dagli anni della fanciullezza romena. La loro corrispondenza evoca le lettere che Milena Jesenska inviava a Franz Kafka. Oltre a Fondane, Ilana Shmueli, rappresenta per Norman Manea un’ulteriore interlocutrice di Celan: un tu posticipato ma non per questo indesiderato o inatteso. Come conferma infatti la Shmueli: «Sapevo fin da prima che nelle sue poesie Celan aveva bisogno ogni volta di un Tu, di solito femminile, un Tu versatile, a cui si rivolgeva e dal quale voleva essere ascoltato».
Norman Manea restituisce al lettore una singolare testimonianza sullo spazio, il tempo, la cultura e l’arte di due uomini straordinari che sono riusciti, l’uno a dire, l’altro a predire ciò che era impossibile. Tra il fumo e le onde di una conversazione surreale, si staglia l’orizzonte dell’esilio e della coscienza ebraica.
Irma Carannante
(n. 11, novembre 2012, anno II)
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