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«Il sogno della letteratura» e la critica anticonformista di Daniela Marcheschi
Daniela Marcheschi è critico letterario e docente di letteratura italiana e scandinava. Il suo ultimo libro, Il sogno della letteratura – Luoghi, maestri, tradizioni[1], pare sia il frutto delle riflessioni di una divoratrice smaliziata di libri e di idee che crede ancora nella capacità della critica di opporsi alle caotiche mercificazioni a cui viene sottoposta la cultura di oggi. Accanita avversaria del conformismo intellettuale, la Marcheschi condanna sin dalla Premessa del volume l’abbandono di molti critici all’improvvisazione e la loro chiusura in un soggettivismo autoreferenziale che alimenta soltanto «la confusione delle chiacchiere effimere su autori e libri»[2]. Il libro conserva questo tono pungente quasi fino all’ultima pagina perchè l’autrice è convinta che la letteratura italiana di oggi è stata indebolita da varie malattie – alcune di esse avendo radici storiche – e come tale la critica, per sperare in una rapida guarigione della paziente, deve somministrarle «medicine amare» e «verità caustiche», come suona una citazione da Lermontov scelta dalla Marcheschi a motto del suo saggio dedicato alla poesia contemporanea.
La dubbia via del naturalismo ad oltranza
Le battaglie portate dal critico partono sempre da un solido costrutto teorico i cui frutti sono poi individuati nella prassi letteraria odierna. Un primo bersaglio è il romanzo di stampo naturalista – il cui canone sembra prevalere nella narrativa italiana dell’ultimo decennio – considerato paradossalmente come uscito dallo stesso ceppo da cui nacque il Simbolismo. Un rifiuto reciso di quella «idea misticheggiante dell’oggettività assoluta dello sguardo» s’associa a questa fredda constatazione: «Al soggettivo assoluto corrisponde l’oggettivo assoluto. Naturalismo e Simbolismo non sono opposti, bensì complementari e sbocchi della stessa sorgente teoretica»[3].
Che la ripresa pedissequa di tale modello di romanzo e di tali vie espressive ‘simboliche’ non sia proprio benefica per i prosatori italiani di oggi pare dimostrarlo il paesaggio letterario stesso, desolante in grande misura. Se le cose stanno così, la critica ne è colpevole perché ha dimenticato qual’è la sua vera funzione, le proprie responsabilità e – come afferma la Marcheschi – «tanto più la critica si sottrae al proprio dovere di costruire significati e valori, costruire e guardare in alto, tanto più contribuisce alla volgarità di questo mondo consumistico e pronto a mercificare ogni valore»[4].
Postmoderno ossia “letteratura della piacevolezza”?
Un altro settore che non piace affatto alla nostra saggista è quello della cosiddetta ‘letteratura della piacevolezza’ o della ‘gradevolezza’ che dir si voglia che nella sua visione par ricoprire tutto il territorio del postmoderno letterario. Daniela Marcheschi scopre le radici di questo tipo di strategia narrativa e commerciale nei romanzi di Umberto Eco. Ho dedicato un libro (apparso nel 2007) alla narrativa di Eco e mi sento obbligato a osservare che forse solo a partire da Baudolino (Bompiani 2000) possiamo parlare di esperienze piuttosto facili, costruite per lettori ingenui, inesperti, desiderosi di superficiali emozioni paraestetiche, mentre i lettori forti, i fruitori critici scoprono ancora nei primi tre esperimenti decisamente postmoderni di Eco – Il nome della rosa, Il pendolo di Foucault e L’isola del giorno prima – valori autentici, etici ed estetici, nonché una intensa ricerca formale focalizzata sui problemi del linguaggio. Inventar segni di segni nell’idea di far prosa della storia culturale – il vero Pozzo di San Patrizio – non credo sia necessariamente un peccato perché così va la letteratura sin dall’Antichità e Aristofane o Luciano di Samosata ne sono le prove... vive. Non posso negare però che gli ultimi prodotti narrativi di Eco producono perplessità. Tra di essi, quell’orribile e mal scritto pseudoromanzo feuilleton intitolato Il cimitero di Praga, che contiene molte pagine da cui traspare un naturalismo disgustoso con certi sbocchi di chiaro e doloso intento sotadico se non addirittura pornografico. Per questo genere di testi va pienamente l’elegante eppur spietata diagnosi che ci offre la Marcheschi: «La colpa grave della “letteratura della piacevolezza” è preferire il diporto dei significati alla nuda consistenza di essi, è renderli a priori secondari, evitando l’onere obbligato di una ricerca concettuale e coerentemente formale»[5].
Responsabilità (perdute) dell’intellighenzia
In una difficilissima situazione si trova, stando alle analisi di Daniela Marcheschi, spesso pervase da una sorta di disperazione, anche la poesia italiana contemporanea. Le patologie sono gravi: «Proliferazione dei verseggiatori e solipsismo, povertà e uniformità del linguaggio poetico, epigonismo...»[6]. In sostanza una debole risposta alla decadenza delle varie istituzioni culturali o alla confusione e alla tendenza a cedimenti qualitativi che si registra in ambito editoriale. Si potrebbe aggiungere che i poeti hanno poi il dovere di opporsi alla strumentalizzazione violenta dell’artistico operata nei nostri tempi da parte del politico che allarga eccessivamente il suo territorio e lo dimostrano pienamente formule care a certi diplomatici italiani come ‘potere culturale’ ossia ‘superpotere culturale’ in cui la gratuità intrinseca ma impegnativa dei valori spirituali si dissolve in pura ideologia.
Il marasma ha raggiunto quote allucinanti e ciò che manca – lo dice varie volte la Marcheschi – è proprio una chiara idea della responsabilità, etica ed estetica. Non a caso troviamo nel suo libro pagine dove risente il bisogno di passare dal dicere al docere e di far scuola con i giovani scrittori propensi al successo facile, convalidato dai mezzi di comunicazione di massa, e incapaci di proporre una fresca visione del mondo o di costruirsi come interpreti originali delle varie tradizioni. L’apatia, l’abulia di tutt’una classe intellettuale che non crede più nei valori essenziali della cultura e riduce la letteratura a puro ma lucroso divertimento determina l’autrice del Sogno della letteratura a lanciar lancinanti domande e si deve sperare che avessimo a che fare con una vox clamantis in deserto nel senso originario e profetico di questa espressione: «Dove è finita la responsabilità dello scrittore? Dove è finita l’avventura di liberazione consentita dalla retorica in quanto arte del dire argomenti efficaci? Eppure lo scrittore è un custode della parola e delle tradizioni letterarie; e come un custode sta alla porta, pronto ad aprirla e a chiuderla quando ce ne sia bisogno. Lo scrittore è un interprete delle tradizioni e deve sempre scegliere, perché l’etica è il fondamento stesso del segno. Il suo compito è quello di eliminare volgarità dal mondo»[7].
Contro Harold Bloom
In un’analisi che man manino diventa severa confutazione del famoso libro di Harold Bloom intitolato Il canone occidentale, Daniela Marcheschi nega al professore americano il diritto di imporre il suo Parnaso al lettore di oggi e considera che le sue teorie si salvano appena per il fatto che tuttavia aiutano i fruitori a distinguere tra opere universali, opere belle oppure soltanto graziose. Non accetta un presupposto atteggiamento elitario di Bloom che sarebbe derivato dalla sua visione idealistica sulla letteratura. Poi, mettere al centro del canone occidentale Shakespeare le pare una esagerazione restrittiva oppure, comunque, una prova di orgoglio anglosassone. La saggista rimprovera a Bloom la diminuzione dell’importanza di grandi scrittori italiani come Dante o Leopardi (neppure menzionato) e lo tratta da provinciale in quanto crede che le problematiche di moda nelle università americane fossero universalmente valide.
Il giudizio mi sembra troppo severo. Bloom ha meriti incontestabili tra cui quello di difendere senza tregua l’autonomia dell’estetico. Non mi pare lo faccia per gusto idealistico, ma piuttosto per por argine a ciò che lui chiama la Scuola del Risentimento, tipo di pensiero che tende a spiegare tutti i fatti culturali, la letteratura compresa, in base a schemi ideologici. Si delinea così, per i seguaci di questa linea di pensiero, pericolosamente, anche la necessità di creare opere che contengano ‘verità’ che possano trasformare il mondo e aiutare per esempio le femministe a superare le loro varie frustrazioni. Si tratta ovviamente di una mentalità vincolante che tende a trasformare la creazione, il libero gioco della fantasia, in meri strumenti in virtù dei quali si potesse stimolare una nebulosa emancipazione sociale. Così, Petrarca diventa inutile mentre Maya Angelou si impone come alfiere della ʻnuovaʼ letteratura, la sola valida.
Può darsi che la teoresi di Bloom sia alquanto inconsistente, ma l’impulso da cui ne nasce è senza dubbio sano e, tutto sommato, non sembra ci sia tra lui e Daniela Marcheschi una vera... gap. In fin dei conti, sono tutti e due figli di Prospero e si adoperano eroicamente per limitare i continui tentativi degli adepti di Caliban di penetrare fraudolentemente nel sacro territorio delle arti.
Hanibal Stănciulescu
(n. 12, dicembre 2012, anno II)
NOTE
1. Gaffi, Roma 2012.
2. Cit., p. 3.
3. Ivi, p. 13.
4. Ivi, p. 19.
5. Ivi, p. 169.
6. Ivi, p. 51.
7. Ivi, p. 68.
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