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Mezzogiorno d’Italia, il fascino della realtà secondo Antonio Catalfamo
Come fare? Rimaner chiusi nella famigerata torre d’avorio oppure impegnarsi, e non solo esteticamente, e cercare di cambiare il mondo? Rappresentare, leggere, indagare, scandagliare microcosmo e macrocosmo e svelarne i più segreti aspetti, farli vibrare in strutture letterarie, liriche ossia narrative, è già un compito da titano. Non necessariamente consolatorio per i fruitori perché contiene in sé un invito ad un agghiacciante sforzo cognitivo. Un tentativo di ricostruire, di migliorare la realtà per via dello scrivere inteso come intervento civico diretto nella società (se non addirittura «rivoluzionario») potrebbe destar sospetti. È così che la letteratura si trasforma inevitabilmente in discorso politico e poi genera commenti a forte carica ideologica. Potrebbero proporre in coro simili argomenti contrari gli adepti della critica di stampo crociano, i critici strutturalisti e i seguaci dell’estetismo ad oltranza.
Non sembra temere simili confutazioni un ammiratore di Gramsci, Antonio Catalfamo, critico letterario sottile ed energico operatore culturale. È lui che coordina dal 2001 un «Osservatorio permanente sugli studi pavesiani nel mondo» al quale hanno aderito moltissimi docenti universitari provenienti da quasi tutti i continenti... Romania compresa! I contributi dei membri di questa conventicola accademica vengono pubblicati a cadenza annuale dal CE.PA.M. (Centro Pavesiano Museo casa natale) a Santo Stefano Belbo. A quest’ora credo che sia già pronto il dodicesimo volume di saggi internazionali di critica pavesiana.
A tanti anni dalla scomparsa del pensatore sardo che scelse come guru, Antonio Catalfamo ha il coraggio di proporre al lettore italiano un libro di saggi critici, Il racconto della realtà [1], in cui esalta lucidamente la visione gramsciana sui fatti artistici, culturali e storici e sul ruolo del dotto. Il soffio marxista – tutt’altro che canonico, senza dubbio – vi è ben chiaro anche se venato di spunti sociologici o psicanalitici. Questo viaggio testuale si configura come percorso analitico focalizzato su vari tipi di realismo: si parte dal romanzo poliziesco, passando per il verismo, e finendo con le ultime esperienze del Novecento letterario siciliano.
Una
introduzione polemica
Una introduzione decisamente polemica, intitolata La realtà gratta alla porta, apre il libro e ci aiuta a farci un’idea più chiara sul metodo interpretativo del saggista che respinge le esagerazioni di un certo strutturalismo imperniato sulla tesi della autosufficienza dell’opera letteraria. Per esser più convincente, Catalfamo chiama in causa Tzvetan Todorov, uno dei promotori, a partire dagli anni Sessanta, del movimento strutturalista che, si sa bene, predilige gli aspetti formali del testo estetico cercando di arginare lo «storicismo assoluto». In un suo libretto del 2008 – La letteratura in pericolo – lo studioso bulgaro cerca di ridefinire le sue posizioni e afferma che l’approccio interno (il rapporto esistente tra i vari elementi dell’opera) doveva riflettersi in un approccio esterno, cioè nello studio dei vari contesti (storico, ideologico, estetico). L’obiettivo finale rimaneva sempre la comprensione del significato delle varie opere letterarie, portatrici di Weltanschauung [2]. Il nostro saggista osserva che Todorov fa rivivere un’idea già cara al De Sanctis e fatta propria anche dal Gramsci concernente il carattere inscindibile di quel binomio formato da significante e significato. Altri nomi invocati nella introduzione sono quelli di Galvano della Volpe e di Carlo Dionisotti, il primo per aver approfondito la concezione marxiana del fenomeno artistico, evidenziando le similarità tra arte e scienza nel riflettere e decrittare la realtà; l’altro per aver scoperto come la letteratura italiana sia «percorsa da una dialettica di forze e aspirazioni contrastanti, della quale occorre dar conto». Poi, «in questa dimensione dialettica l’elemento geografico ha un’importanza fondamentale» [3]. Aggiunge Catalfamo: «Il territorio è il risultato dell’azione “antropica” dell’uomo, che in esso riversa se stesso, i propri ideali, le proprie passioni. Per questo egli lo sente suo, riesce a rappresentarlo letterariamente. Per converso, il territorio “gli parla”, proprio in quanto gli appartiene» [4].
In questo modo, crede Antonio Catalfamo, il testo estetico si articola sempre come racconto della realtà, di quella poliedrica realtà che invano una parte della critica ha cercato di espellere dall’esperienza letteraria.
Da Verga a Camilleri
Questo tipo di ermeneutica marxista pare fornisca allo studioso uno strumento assai flessibile che gli permette di metter in risalto, ad esempio, un certo sostrato ideologico nell’opera di Verga, accusato in due saggi distinti di aver tradito il suo impegno oggettivo, impersonale, per lasciarsi dominare dalla sua concezione di gentiluomo quando descrive il mondo siciliano. Un po’ strano mi sembra però il modo in cui Catalfamo, riprendendo una tesi di Carlo Levi, rivaluta un personaggio de I Malavoglia, il nipote ‘Ntoni, il quale dopo aver servito nell’esercito dell’Italia unita, si dà alla vita dissipata e al contrabbando per abbandonar poi per sempre la terra natia. Il giovane sradicato e scapestrato viola le norme della comunità contadina – solo contadina? – è viene escluso dalla sua «tribù». Può esser considerato un progressista, un uomo nuovo, solo perché sia propenso ad un futuro da proletario disperato? Forse il saggista sia troppo convinto che la filosofia della prassi assicuri a noi tutti una palingenesi assoluta e riesce così a idealizzare un povero diavolo che sta per perdere la propria identità. Da noi, in questa parte del mondo, quasi nessuno immaginò un possibile ruolo messianico delle classi sfavorite, mostruosamente strumentalizzate e a tal fine ammaliate dai comunisti con false promesse come quella codificata in una formula piuttosto spaventevole – «dittatura del proletariato».
Giusto, invece, proprio perché molto severo, il modo in cui viene decifrata l’opera menzognera del rudimentale Andrea Camilleri a cui Catalfamo oppone a ragion veduta la narrativa penetrante di Leonardo Sciascia. Il padre del commissario Montalbano è un produttore di paraletteratura che imita pedissequamente la hard-boiled school nordamericana con esiti stereotipati e grossolanità estetica. È questa una vera letteratura del disimpegno che propone al grande pubblico un’immagine folcloristica della Sicilia che pare popolata da caricature che usino per comunicare una lingua inventata ad hoc: una sorta di italiano mescolato al dialetto, adoperato dalla «borghesia siciliana che vuol civettare col popolo, e che, attraverso il ricorso ad un patrimonio linguistico “comune”, assume rispetto ad esso un atteggiamento paternalistico» [5].
Sui grandi problemi del Mezzogiorno
Non potevano mancare da un libro così sostanzioso da cui trapela non di rado un autentico fervore militante alcuni saggi consacrati ai grandi problemi del Mezzogiorno e merita segnalato prima di tutto quello intitolato Scrittori in Sicilia: mafia e dinamiche sociali [6]. Antonio Catalfamo vi analizza la portata del mito della cosiddetta setta giustizialista dei Beati Paoli, organizzazione segreta imposta da certi autori di romanzi d’appendice come rimedio idillico per le disparità sociali spiccanti nell’isola. Uno degli scrittori che godeva negli anni ’20 di una certa fama e il cui romanzo – I Beati Paoli – viene ristampato nel 1955 dalla casa editrice La Madonnina di Milano è Luigi Natoli. Seguendo la scia di Gramsci come fa spesso nelle sue ricerche, Catalfamo non boccia quest’autore tanto per la sua scadente letterarietà quanto per aver attuato un progetto ideologico che in sostanza «è proprio quello di far accettare al lettore popolare il principio di autorità e di gerarchia sociale, che non può essere intaccato dal desiderio di giustizia, che, sul piano della semplice consolazione letteraria, viene assicurata non attraverso mezzi rivoluzionari, che sovvertano l’ordine costituito e che coinvolgano il popolo come protagonista, ma attraverso l’azione del “superuomo” o dei pochi “giustizieri”, appartenenti alla setta religiosa» [7]. La mafia «moderna» sfruttò abilmente questo messaggio di Natoli e l’autore del saggio cita un passo da una deposizione di un capo di «Cosa nostra», Tommaso Buscetta, dove questi parla di un legame quasi rituale tra la sua organizzazione criminale e la presunta setta dei Beati Paoli. Il boss mafioso affermava che loro avessero lo stesso «giuramento» e gli stessi «doveri»!
Ovviamente, tale paraletteratura può dimostrarsi pericolosa perché si sforza dolosamente di innestar valori su un tronco maligno. Scrive a tal proposito Catalfamo: «Il racconto letterario incide, dunque, sulla “vita intellettuale” del lettore popolare, penetra a fondo nella sua sfera psicologica, nel suo modo di pensare, trasmettendogli, in maniera subdola, tutto un sistema di valori delle classi dominanti, ch’egli assimila come propri, quasi senza accorgersene, e che si stratificano nella sua mente, rimanendovi permanentemente, in una dimensione fiabesca...» [8].
Su Nino Pino e Bartolo Cattafi
Antonio Catalfamo è nato a Barcellona Pozzo di Gotto, secondo centro della provincia di Messina e, come tale, dedica a Nino Pino e a Bartolo Cattafi, due poeti famosi provenienti dalla stessa città, un interessantissimo saggio il cui tema è Il “bifrontismo” del Novecento siciliano. Si tratta di due personalità letterarie di rilievo che incarnano bene i due lati opposti dell’anima siciliana: quello passionale, sanguigno, che non di rado si traduce in rivoluzionarismi anarchici; e quell’altro, il versante dell’immobilismo, del disincanto quasi pessimistico, del sonno siciliano, elemento cardinale della metafisica di Don Fabrizio, quell’ormai mitico personaggio de Il Gattopardo. Nino Pino, osserva Catalfamo, è un neoumanista e, nel contempo, un neorazionalista che si rende conto dei limiti della ragione come strumento di conoscenza. Egli vede la letteratura come azione trasformatrice della società, come impegno che superi il non ancora compiuto programma illuministico di bonifica sociale [9].
Per converso, «Bartolo Cattafi rientra nell’ampio arco decadente descritto dalla letteratura italiana. Il termine “decadente” va preso nel suo significato positivo» [10]. Il poeta amò i viaggi avventurosi, ma tornò sempre alla sua Sicilia. Catalfamo respinge le letture schematiche della poesia di Cattafi, fatte da critici che considerarono la sua opera soltanto un «itinerarium mentis in Deum», e sottolinea la forza della sua lirica in cui il motivo della vita vissuta da bohémien costituisce il legame segreto dei principali blocchi tematici.
Il saggista Antonio Catalfamo possiede, e credo averlo pienamente dimostrato in queste pagine, anche se dissento da lui in non pochi punti, le rare qualità del dotto di razza sempre pronto a interpretare quel tessuto multiforme, riplasmato in strutture letterarie, che per forza chiamiamo ‘realtà’, cercando di definire così un mirabile ed evanescente Macrotesto.
Hanibal Stănciulescu
(n. 7, luglio 2012, anno II)
NOTE
1. A.Catalfamo, Il racconto della realtà, Solfanelli, Chieti 2012.
2. Idem, cit., p. 7.
3. Ivi, p.8.
4. Ivi, p.9.
5. Ivi, p. 28.
6. Ivi, pp. 377-402.
7. Cit., p. 386.
8. Ivi, p.387.
9. Cf. cit., pp. 437-439.
10. Ivi, p. 439.
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