Badanti romene: un libro per conoscere molte storie di casa nostra

Sono poco meno di un milione e quasi non c’è italiano che non ne abbia conosciuto una, magari di nome o di viso. Sono le badanti romene, protagoniste in Italia di molte storie, spesso luminose, talvolta opache. Ma cosa sappiamo realmente di loro e della loro vita? Cosa c’è dietro i loro nomi e, spesso, i luoghi comuni che le riguardano?
Non ci si lasci ingannare dalla seconda parte, fuorviante e sdolcinata, del titolo, perché il libro Badanti romene, ambasciatrici d’amore (Viola Editrice, Roma 2015) è un’opera di grande interesse, assolutamente da leggere e sperabilmente da tradurre e pubblicare anche in Romania. Lo firmano Giancarlo Germani, avvocato impegnato da anni nelle problematiche della comunità romena presente in Italia, e Alexandra Cristina Grigorescu, giovane conduttrice televisiva a Roma.
«Lo scopo principale di questo libro – sottolineano gli autori  – è quello di far conoscere meglio una figura controversa nella società italiana, ma piena di umanità e che merita il rispetto generale: la badante romena. I media italiani, soprattutto in questi ultimi anni, hanno evidenziato all’attenzione pubblica, solo alcuni aspetti, generalmente i più discutibili della comunità romena, ponendo in una luce spesso ambigua soprattutto le lavoratrici del settore domestico e dell’assistenza familiare. Parliamo di donne di tutte le età, spesso non più giovani, che hanno lasciato il loro paese natale, la Romania, le loro tradizioni, la loro cultura e le loro famiglie, per venire in Italia alla ricerca di condizioni di vita migliori. La ricerca di un posto di lavoro in una casa italiana era ed è motivata dalla necessità di poter mandare i figli all’università, di comprare una casa, di aiutare la famiglia dei figli ad affrontare le spese degli studi dei nipoti, di migliorare, in poche parole, il tenore di vita delle proprie famiglie».

Come vivono abitualmente le loro giornate, con quali problemi si confrontano, quali speranze, illusioni, amarezze, soddisfazioni sono il pane quotidiano delle nostre badanti? E come sono viste, tanto in Romania, quanto in Italia? E che dire degli scandali e degli abusi, sia da parte di chi le chiama in casa propria, si da parte loro in casa altrui? Queste donne, con un nome e una storia non di rado avvolte nella nebbia dell’indifferenza o del pregiudizio, sono spesso protagoniste di grandi pagine di umanità. Come anche del contrario, talvolta. Il libro di Germani e Grigorescu tratteggia i diversi aspetti e dimensioni della vita e del lavoro delle badanti, senza eluderne nessuno: «Non vogliamo nascondere le zone di ombra costituite da comportamenti personali non sempre corretti e onesti che sono sfociati a volte anche in reati – segnalano gli autori – ma riteniamo giusto dare un panorama complessivo dell’attività di queste donne, che spesso, nel bene, e a volte nel male, hanno saputo lasciare un’impronta importante nella società italiana».

Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo uno dei capitoli più toccanti, dedicato a un tema delicatissimo: i figli delle badanti, le centinaia di migliaia di bambini e ragazzi rimasti in Romania, privi della madre (e talvolta anche del padre), con tutte le problematiche che a ciò si connettono. Come accade con gli altri capitoli del libro, anche in questo caso al testo degli autori seguono testimonianze tratte dalla stampa italiana.

Giovanni Ruggeri

 

I figli

 

I figli e la famiglia hanno rappresentato le motivazioni principali che hanno spinto tante donne romene in Italia e in altri paesi di tutto l’Occidente. La voglia e la determinazione di strappare i propri figli a una vita di duro e ottuso lavoro e di povertà, ha determinato le donne romene a mettersi in cerca del Sacro Graal di un benessere che non cercavano per loro, bensì per la propria prole. «Che almeno loro non soffrano quello che abbiamo patito noi». Questo è stato il principale propellente morale che in tutte le epoche ha spinto gli uomini all’emigrazione, compresi quei milioni di italiani che in tutto il mondo hanno cercato fortuna, Romania compresa (eh già... sorpresi?) verso la fine dell’800 per affrancare i propri figli dalla miseria o dalla dura vita nei campi per un misero tozzo di pane.
Mentre le donne italiane hanno filato in Belgio, hanno prodotto cioccolata in Svizzera o fatto le governanti e le colf negli Stati Uniti nei primi anni del ‘900, le donne romene si sono guadagnate sul campo, per la loro pazienza e per le loro ridotte pretese, il marchio di badanti preferite dalle famiglie italiane nel terzo millennio.
Con quei 200/300 euro che ciascuna è riuscita a mandare per anni in patria, come risultato netto di innumerevoli sacrifici e privazioni, è cresciuta in Romania una generazione di ragazzi – i figli delle badanti – che non si possono considerare ricchi o benestanti, perché non hanno alle spalle grosse fortune materiali, ma che hanno una potenzialità enorme costituita dall’aver studiato in condizioni di discreto benessere.
Questi ragazzi hanno già vissuto esperienze formative notevoli, avendo quasi tutti raggiunto, per periodi più o meno brevi, le loro madri in Italia e avendo potuto frequentare anche le scuole italiane (dove attualmente ci sono circa 90.000 ragazzi romeni) padroneggiando almeno due lingue europee e le moderne tecnologie.
In Romania la società è divisa in modo molto netto tra chi ha e chi non ha... ebbene, i sacrifici delle badanti, hanno reso possibile un minimo di flessibilità sociale, grazie alla liquidità reperita presso le famiglie italiane che hanno consentito a questi ragazzi, prima di avere condizioni di vita migliori, dal vestiario al cibo, e poi di poter studiare godendo anche dei nuovi supporti elettronici e informatici come computer, tablet, smart e iphone, che in Romania si sono imposti con un consumo quasi sproporzionato allo stesso Pil romeno...
Non tutti questi ragazzi sono riusciti ad arrivare in fondo al tunnel, molti si sono persi e alcuni purtroppo hanno anche posto fine ai loro giorni consumati dalla lontananza delle madri e dalla rottura dei nuclei familiari.
La Romania e le famiglie romene hanno pagato un costo molto alto a questa corsa verso un benessere che è stato raggiunto emigrando, ma che poteva anche essere raggiunto sfruttando in maniera corretta, sensata e più democratica, le grandi risorse interne del paese. Una responsabilità politica pesante per le coscienze dei politici romeni che in questi 26 anni di democrazia, si sono accaparrati selvaggiamente tutte le risorse e hanno poi ignorato o minimizzato il fenomeno migratorio, come se i milioni di romeni scappati all’estero fossero degli stravaganti turisti e non individui posti con le spalle al muro da un sistema sociale iniquo e vessatorio.
I figli della ricca borghesia semi-securista romena, sono cresciuti con Bmw, Ferrari, stage ad Harvard e Oxford tra un party e un master a Londra, mentre i figli delle badanti sono cresciuti spesso in campagna con i nonni ottantenni senza grandi svaghi, dando una mano ai lavori nei campi ma con la spinta, che solo l’ingiustizia sociale e la povertà sanno dare, di migliorare sia le proprie condizioni, sia le proprie prospettive, non solo per se stessi ma anche per i genitori che si erano immolati per anni all’estero solo ed esclusivamente per loro.
Il più grande investimento delle badanti romene infatti, oltre ai milioni di rimesse che hanno rappresentato la prima fonte di introito in valuta della Romania, sono stati i figli. Non potendo fornire loro Ferrari o Bmw o il relativo tenore di vita da Vip, che in Romania è appannaggio dei cosiddetti uomini di affari, dei politici o dei cantanti, le badanti romene hanno fornito ai propri figli l’esempio delle loro vite: il sacrificio per un interesse superiore e la consapevolezza che solo studiando e conseguendo una preparazione di livello superiore, sarebbero potuti stare al pari, e anzi superare i figli della grassa borghesia romena, ricchi, ma spesso non motivati, viziati e quasi sempre molto maleducati e arroganti.
Non è un caso che tanti ragazzi romeni figli di queste famiglie della cosiddetta «Diaspora romena», vincano a mani basse le Olimpiadi di matematica, fisica, geografia o chimica, confrontandosi con successo con le nuove generazioni europee senza complessi o inibizioni di sorta.
Non bisognerà stupirsi più di tanto se questi ragazzi seguissero le orme dei loro predecessori italo americani che da figli di poveri immigrati «maccaronari» diventarono la classe dirigente del sogno americano spingendo gli Stati Uniti a raggiungere traguardi inattesi e imprevedibili in ogni campo.
Vedremo se la società romena saprà sfruttare questo potenziale umano che le badanti e le famiglie della «Diaspora» hanno saputo, con grandi sacrifici, far lievitare all’interno di un corpo asfittico e spesso iniquo, come quello della società romena post-decembrista, per creare delle basi sociali ed economiche veramente libere e democratiche, dove il benessere non debba essere raggiunto tramite l’emigrazione, ma attraverso una sana competizione tra cittadini eguali.
Se la nuova classe dirigente romena sarà quella nata sulle ceneri e sui sacrifici di milioni di famiglie romene della «Diaspora», la Romania avrà enormi potenzialità di diventare in pochi decenni una delle locomotive d’Europa dove benessere e stile di vita saranno invidiate, apprezzate e imitate.
Se invece i figli e il prezzo di decenni di rinunce e sacrifici saranno ignorati o minimizzati come si è fatto sinora, soprattutto in Romania, con il fenomeno stesso della emigrazione di massa che è ignorato o manipolato dai media romeni per non disturbare troppo l’attuale classe dirigente che ne è la principale responsabile, queste potenzialità saranno regalate ad altri paesi. A questo punto personalmente spero che tanti di questi ragazzi e delle loro famiglie, scelgano l’Italia come loro terra di adozione.
Già numerose sono le richieste di cittadinanza di tanti romeni che, non trovando in Romania ancora un contesto adatto alle loro ambizioni e possibilità, chiedono e prendono la doppia cittadinanza, ed egoisticamente per l’Italia questo è un bel vantaggio, perché stiamo accogliendo fra noi persone di valore, sia umano sia professionale, che potranno solo giovare alla nostra società che ha bisogno di queste cellule staminali che ci riportano indietro a un passato prossimo – per troppi già remoto – troppo velocemente dimenticato e frettolosamente archiviato.
I valori umani sociali, culturali e professionali di questi figli della «Diaspora» e delle badanti romene, sono frutto di amore, dedizione e altruismo, parametri importanti per una società che voglia dirsi sana, competitiva e democratica. Vedremo tra l’Italia e la Romania chi sarà più lungimirante nell’apprezzarli, intanto un grazie commosso alle loro madri... sia per gli sforzi profusi... sia per i risultati ottenuti!

(I testi che seguono sono riportati dagli autori del libro a termine del capitolo, ndr).

40 suicidi fra gli «orfani bianchi»

Il welfare di cura è principalmente femminile; le mamme che curano i nostri figli e genitori però lasciano in patria i loro bambini, spesso senza cura. Si chiama «care drain» e nella sola Romania già 40 ragazzini si sono suicidati, vittime della «sindrome Italia». Una riflessione.


Orfani bianchi, vittime del care drain, rimasti soli in patria con le mamme all’estero a prendersi cura dei figli (o dei nonni) di qualcun’altro. Nella sola Romania, una quarantina di ragazzini si sono suicidati proprio a causa della lontananza dalla madre. In realtà i dati ufficiali parlano di 30 casi dal 2008 a oggi, ma secondo le associazioni sono molti di più. L’allarme è stato lanciato ieri dal deputato Pd Khalid Chaouki, durante un convegno organizzato in collaborazione con l’Associazione delle donne romene in Italia (Adri) e la Ong Soleterre. Sono circa 750 mila bambini in Romania che hanno almeno un genitore che lavora all’estero e moltissimi di essi sono piccolissimi, fra i 2 e i 6 anni.
Riproponiamo qui una riflessione della ricercatrice Flavia Piperno, che già nel 2008 su Communitas aveva portato a galla il problema. Il testo completo dell’articolo «Il welfare vittima del care drain» è su Communitas n. 22, marzo 2008.

Il problema del care drain

Sia in Romania che in Ucraina si assiste a un processo di crescente femminilizzazione delle migrazioni. I dati mostrano che si tratta di un fenomeno recente: in Romania secondo stime effettuate dal Center for Urban and Rural studies – uno dei più importanti centri di ricerca che opera attraverso vaste indagini quantitative svolte a livello locale – su un campione di 1.199 nuclei familiari dal CURS, la migrazione delle donne è raddoppiata in appena tre anni – tra il 2001 e il 2004 – passando dal 16,7% al 31% del totale. In Ucraina – dove secondo dati del Ministero della Famiglia la percentuale di migrazione femminile è simile a quella rumena – l’aumento del flusso migratorio in alcune importanti regioni di emigrazione, come Ternopoli, e l’emergere di nuovi paesi di destinazione - tra cui proprio l’Italia – sono fenomeni interamente dovuti alla partenza delle donne. Questo nuovo flusso migratorio ha naturalmente un nuovo impatto sui paesi di origine. Da una parte, poiché l’emigrazione delle donne è fortemente orientata al benessere della famiglia e soprattutto dei figli (piuttosto che all’investimento o al successo personale), produce ricadute indubbiamente positive sulla famiglia che resta nel paese di origine, sia in termini di aumento della qualità della vita, che di opportunità socio-economiche. Una ragazza diciassettenne intervistata in Romania si mostra pienamente consapevole di questo processo: «La mamma è partita principalmente per me: per alzarmi! per farmi alzare! per aiutarmi a fare una casa e un bel lavoro e poi vedremo!»

Una sottrazione di cura

D’altra parte, poiché le donne rappresentano nei paesi di origine le principali care giver all’interno della famiglia, la loro partenza necessariamente comporta una sottrazione di cura, di cui risentono soprattutto i membri della famiglia più deboli: principalmente figli minorenni e genitori anziani.
Al problema del drenaggio di competenze e cervelli (brain e skill drain) che come ampiamente rilevato in letteratura spesso si associa ai processi migratori, si unisce un nuovo tipo di drenaggio: quello della cura. Proprio per indicare questo nuovo fenomeno, utilizziamo il termine care drain. Il problema del care drain, scarsamente dibattuto in occidente, non è invece nuovo nei paesi di origine: in Romania mass media e ONG, proprio in riferimento a minori con genitori all’estero, cominciano a parlare di «abbandono di fatto», mentre in Ucraina è divenuto ormai di uso comune il termine «orfano sociale».

I bambini di internet

La nostra e altre ricerche, mostrano come solo in una minoranza di casi il drenaggio di cura si trasformi in vuoto di cura, e dunque in abbandono, contrariamente a quanto spesso sostengono media e ONG locali, poiché i membri della famiglia transnazionale mettono in atto una serie di strategie compensative che limitano l’impatto del care drain. Le madri, in primo luogo, continuano a svolgere un ruolo di accudimento nei confronti della famiglia di origine e una funzione di cura emotiva e guida da lontano. Viaggi frequenti, contatti telefonici quasi quotidiani e un flusso di rimesse fortemente orientato proprio alla cura – destinato cioè ad affidatari che si prendono cura di figli e genitori anziani, allo studio e alle ripetizioni dei figli, alle spese sanitarie e ai risparmi per la pensione, etc. – sono i principali strumenti di una continuità relazionale che si esplica al di là dei confini. Alcuni ragazzi, intervistati nella terra d’origine, parlano di un’intimità che addirittura si rinnova nella distanza: «Il nostro rapporto è migliorato da quando lei e là. Io mi ricordo poco di mia mamma da quando ero piccola, il babbo era la figura forte, non gli disubbidivamo mai. (A mia mamma) non le raccontavo molto prima che lei partisse, ma quando è partita ci siamo molto avvicinate. Continuo a parlare con la mia mamma quando ho un problema, lei sa tutto di me. Quando stavo con un ragazzo, il babbo non sapeva niente. Lei invece è tornata in ferie e ha capito subito. Ha capito dal mio comportamento. È molto ricettiva a tutto, capisce subito. Tutti si confessano con lei, quando ci parlano al telefono».
In loco, la cura si riorganizza attraverso l’espansione del ruolo della famiglia allargata, (principalmente grazie al coinvolgimento di nonne materne, zie e sorelle) oppure, fatto nuovo in questi paesi, attraverso l’acquisizione di prestazioni di cura sul mercato privato.

La solitudine dei figli

Se è vero, dunque, che grazie alle strategie compensative adottate dalla famiglia transnazionale il drenaggio non si trasforma in vuoto di cura, è anche vero tuttavia che una carenza di cura di fondo -ovvero ciò che potremmo definire care shortage – generalmente permane. I minori, pur ricevendo rimesse e telefonate quotidiane dai genitori, restano di fatto senza alcun parente nella terra di origine (nel nostro campione abbiamo riscontrato tale situazione almeno in una decina di casi su 53); ma anche quando la rete familiare si attiva, essa appare comunque «sotto sforzo» e non sempre è in grado di fornire soluzioni adeguate. Parenti e tutori possono avere difficoltà a esercitare una cura e una sorveglianza efficaci; il gap generazionale tra nonni e nipoti può risultare eccessivo, mettendo in difficoltà tanto i primi che i secondi, soprattutto nei casi in cui per essere posti sotto la tutela dei nonni, i minori devono spostarsi dalla città alla campagna, e la differenza di mentalità può rivelarsi insormontabile.
A volte inoltre, le soluzioni trovate si rivelano «precarie», parenti o tutori non possono cioè tenere a lungo il minore con sé e molti ragazzi si vedono dunque costretti a cambiare sistemazione e alloggio ripetutamente. Si assiste in queste circostanze a una sorta di migrazione interna originata dalla migrazione internazionale e dal bisogno di cura.
Quasi sempre, quando chiediamo ai ragazzi chi li sostiene e li guida nei momenti di difficoltà, essi non sono in grado di individuare alcun referente adulto, a parte le madri che sono all’estero.

La storia di Robert

La storia di Robert mette in luce molti degli aspetti ora descritti: «Tu sei rimasto con i nonni?»
«No, sono rimasto con un vicino di appartamento… loro mi facevano da mangiare e le pulizie, ma dormivo da solo… a 12 anni… e ora se voglio dormire con qualcuno non ci riesco. Davvero! Se io non mi sento da solo nel letto non mi va bene…» «Come era vivere da solo a 12 anni? »
«C’erano cose buone e cose male: facevo quello che volevo, mangiavo quello che volevo… ma anche cose non buone. Se volevo parlare con qualcuno non sapevo con chi, se volevo che mi aiutasse qualcuno con i compiti non ce l’avevo…»
«Chi pagava le bollette? »
«Il mio vicino, perché i miei mandavano i soldi e pagavano sia le bollette che la mia sussistenza… Io mangiavo a casa loro… e se volevano andare al mare o in campagna venivano e mi lasciavano da mangiare in frigo…»
«Non ti portavano in vacanza con loro?»
«E no, perché è un’altra cosa…i genitori non possono essere sostituiti mai. Mai».
«Perché non sei rimasto coi nonni?»
«I miei nonni vivono in campagna, qui in Romania si vive molto meglio in città. Da noi in campagna si lavora, la mentalità è diversa, loro erano duri, non capivano i miei problemi, i miei sentimenti, loro solo: lavorare, lavorare e basta».
«E la tua esperienza in Italia come è stata?»
«Io in tutto in Italia sono stato un anno pieno. Non sono stato a scuola... ho perso un anno... Quando stavo in Italia il giorno giocavo con mio fratello, mentre i miei lavoravano rimanevamo da soli... ho voluto tornare in Romania perché qui sono nato».

La solitudine delle mamme

Spesso le madri migranti faticano a gestire la separazione e la relazione a distanza. Alcune donne evidenziano, in particolare, la difficoltà a mantenere il controllo sui figli, altre, soprattutto se hanno figli piccoli, faticano addirittura a riconoscersi come madri; altre ancora dichiarano che a causa della distanza, la relazione con i figli cambia in modo radicale, a volte permanente, e questo, tra l’altro, contribuisce a rendere particolarmente traumatici gli incontri in occasione di visite o del ricongiungimento e rende ancor più complicato ristabilire una relazione di riconoscimento reciproco.
Tanţa, che lavora in Italia e in Romania, ha un bambino di 11 anni e afferma: «Non passa un giorno senza che pensi cosa starà mangiando? [...] Credo che questa distanza cambia la relazione per sempre, io sto pensando che quando lo porto qui non voglio separarmi un’altra volta da lui. Per loro è tutta un’altra cosa. Loro dopo questo periodo un po’ si allontanano, non hanno più la stessa confidenza come prima, diventi un po’ più straniera. Ti manca proprio questo periodo dello sviluppo, quando loro hanno più bisogno di te, tu non ci sei. Questo non si recupera mai. Loro prendono completamente altre abitudini e ti ritrovi di fronte a loro che proprio non li riconosci. Tu sai che a lui piaceva questa cosa e ti ritrovi di fronte a lui che ti dice “che schifezza!”»
La difficile gestione della relazione a distanza e di un rapporto che necessariamente nella lontananza si trasforma, aumenta il malessere sociale delle lavoratrici immigrate, ne limita la capacità di offrire cura e sostegno da lontano, rende più instabili le relazioni familiari e più difficile l’inserimento dei ragazzi che intendono ricongiungersi.

Crisi a scuola e devianza

Nel paese di origine la carenza di cura (intesa come accudimento e comunicazione), e dunque l’appartenenza a un contesto familiare meno protetto, acuisce momenti di difficoltà propri di ogni storia, accresce problematiche latenti in soggetti più fragili, esaspera problematiche intrinseche a determinati contesti sociali in cui, ad esempio, sono più diffusi comportamenti di bullismo o devianza minorile. Significativa a questo proposito la denuncia dell’Ispettorato Regionale di Polizia di Iaşi, che sulla base di documenti interni relativi all’anno 2005, nota come nella regione quasi la metà dei reati, truffe e scassi di macchine in specie, siano stati compiuti da minorenni tra i 14 e i 16 anni e come tra questi minori siano in ascesa quelli con genitori all’estero.
Anche diverse strutture scolastiche, dove l’impatto di quello che abbiamo definito «care drain» è particolarmente forte, si trovano di fatto sotto pressione. In Romania i problemi maggiormente citati da professori e psicologi della scuola sono assenteismo, abbandono scolastico e demotivazione allo studio, indotti anche dalla forte propensione a migrare da parte dei minori (si starebbe diffondendo tra i giovani l’opinione secondo cui chi trova opportunità di guadagno all’estero ha più successo di chi studia); a ciò si aggiunge la difficoltà a reinserire gli studenti a scuola dopo periodi passati all’estero e il venir meno dei colloqui con i genitori, che rende più debole l’azione del corpo docente. Una professoressa intervistata a Salaj, in Romania, afferma: «La situazione cambia velocemente, da una settimana all’altra. Dei bambini che restano alcuni hanno problemi, altri no. Alcuni sono contenti: hanno dolci e vestiti e i genitori quando tornano gli portano i cellulari. Alcuni però smettono di studiare, cominciano ad utilizzare molto internet... sono i “bambini di internet».
Diversi professori intervistati in Romania e Ucraina inoltre notano come problemi comportamentali, quali ad esempio conflittualità o indisciplina, rendono ulteriormente complessa la gestione delle classi, ma alcuni parlano anche semplicemente della difficoltà a sostenere studenti che hanno un vissuto emotivo difficile e tendono a chiudersi in se stessi. Anche per questo molti professori parlano del bisogno di maggiore formazione per loro stessi, e della necessità di un maggiore coinvolgimento degli psicologi della scuola. A questo proposito ci colpisce la dichiarazione di una professoressa intervistata a Focşani, la quale dichiara: «Tutto questo cambia loro, i bambini, ma cambia anche noi, perché arriviamo ad essere in contatto con problemi sempre più difficili da risolvere, da un anno all’altro le situazioni si complicano sempre di più». [1]

[1] http://www.vita.it/it/article/2014/05/13/40-suicidi-fra-gli-orfani-bianchi/126905/

 


(n. 5, maggio 2016, anno VI)