Tra filosofia, folclore e medicina: Mircea Eliade e Valeriu Bologa Tra le tante utili e meno utili (trattandosi talora di libri che riciclano articoli precedenti) pubblicazioni su Mircea Eliade (1907-1986) che escono senza sosta in inglese, italiano e romeno (in francese si pubblica quasi solo spazzatura, da D. Dubuisson ad A. Laignel-Lavastine, da M. Gardaz a D. Dana), l’ultimo lavoro della ricercatrice dell’Academia Română di Cluj Mihaela Gligor (n. 1977) si segnala per la ricca e originale documentazione oltre che per l’acutezza e sicurezza dell’argomentazione: Mihaela Gligor, Între filosofie şi medicină. Folclorul medical în viziunea lui Mircea Eliade şi Valeriu Bologa, Presa Universitară Clujeană, Cluj-Napoca 2012. Ci pare, dunque, un libro che meriterebbe sicuramente di essere conosciuto fuori dalla ristretta cerchia dei lettori della lingua di Eliade. Dopo la dedica, singolarmente modesta, a «Quei pochi che credono in me», l’A. nell’«Introduzione» presenta il personaggio cui si accenna nel titolo e con cui Eliade fu in corrispondenza, il medico e folclorista transilvano Valeriu Lucian Bologa (1892-1971), che fu professore di storia della medicina e farmacia alla Facoltà di Medicina di Cluj e fondatore della scuola scientifica locale insieme al suo maestro, il francese Jules Guiart (1870-1965), di cui egli era stato allievo alla Sorbona. Nel I cap., Incontri essenziali: Mircea Eliade-Valeriu Bologa, si ricostruisce la trama dei rapporti tra l’affermato accademico e il giovane studente universitario. Il trait-d’union tra i due è, da parte del più anziano medico, il riconoscimento di un’«influenza italiana nel passato della medicina romena», da parte di Eliade, la salda alleanza del Nostro – che aveva allora meno di vent’anni! – con un maestro negli studi di storia della scienza nel mondo, il livornese Aldo Mieli (1870-1950), ebreo, socialista e pioniere del movimento di liberazione omosessuale. Nel cap. II, Dal folclore alla scienza, ovvero sull’essenza dell’esistenza umana, si traccia il percorso descritto nel titolo, che è poi la traiettoria della strategia ermeneutica di Eliade. Due altri personaggi entrano come elementi catalizzatori nella Bildung filosofica e storiografica del romeno: il poeta, filosofo della cultura universalista e drammaturgo transilvano Lucian Blaga (1895-1961), nella cui teoria della cultura è evidente l’influsso di un certo filone di pensiero germanico incline a una visione morfologica e organicistica delle culture (L. Frobenius e O. Spengler), pur con tratti di originalità (cfr. Michael S. Jones, The Metaphysics of Religion: Lucian Blaga and Contemporary Philosophy, Cranbury, NJ, 2006, p. 121, n. 11), e il linguista, folclorista (da opere basilari sul folclore romeno a svariate ricerche su quello ebraico), biblista e rabbino sionista di fama internazionale Moses Gaster (1856-1939), che era un ebreo romeno (sefardita ma di famiglia aschenazita e di formazione profondamente germanica), poi naturalizzato britannico dopo essere stato espulso dal suo paese natale dal governo sedicente liberale di Ion C. Brătianu (1885). L’ammirazione di Eliade per quest’ultimo era dovuta non tanto – come scrive l’A. – al fatto che avesse donato la sua collezione di manoscritti alla Biblioteca dell’Accademia Romena, ma, evidentemente, alla condivisa passione per i «testi» e alla caratteristica messa in luce alla fine del necrologio citato alla p. 62, n. 52: «N-a fost un cosmopolit, deşi a fost un om universal» (Non fu un cosmopolita, benché fosse un uomo universale). Una caratteristica, questa, nella quale Eliade si riconosceva ampiamente: entrambi geni universali ma non cosmopoliti, nonostante le apparenze, in quanto l’uno fu radicalmente ebreo in Romania come in Inghilterra, così come l’altro (a differenza dei suoi due illustri amici parigini Eugen Ionesco ed Emil Cioran) restò profondamente romeno nell’esilio in Francia, in USA, in Italia. I due scritti dedicati da Eliade al rabbino Gaster sono (abbastanza ironicamente) ristampati nella raccolta, a cura e con un preambolo (appassionato e convincente) di M. Handoca, Textele “legionare” şi despre “Românism” (Cluj-Napoca 20011), pp. 144-147 e 150-155 (opera disponibile anche online). Per farsi un’idea del metodo comparato di Gaster (che è poi quello dei grandi filologi romanzi austro-tedeschi, francesi e italiani dell’Ottocento) è invece utile la recente raccolta Studi de folclor comparat (Bucarest 2003), a cura e con una prefazione (piuttosto superficiale) di P. Florea. Il cap. III, intitolato Sulla storia della scienza e dello spirito positivo, documenta la passione precoce di Eliade per le scienze positive sempre sul filo dei rapporti con lo scienziato Bologa, studiati in particolare attraverso la corrispondenza soprattutto del periodo indiano di Eliade (di Bologa sono preservate dodici lettere, dal 1927 al 1938; di Eliade ben venti, dal 1927 al 1969, quando ormai era professore a Chicago e scrive al collega romeno augurandosi di poterlo incontrare in Europa e donargli i suoi studi sull’alchimia). Gran parte del capitolo è dedicato agli studi di botanica (indiana e poi romena) e più in generale di scienza popolare del Nostro, in rapporto con le ricerche di due altri scrittori universali, lo scienziato poligrafo bengalese Jagadish Chandra Bose (1858-1937) e il letterato, filologo, etnografo e politico romeno Bogdan Petriceicu Hasdeu (1838-1907), notoriamente uno dei più enciclopedici e discussi (antisemita confesso e spiritista praticante) personaggi della cultura romena di tutti i tempi. Delle opere letterarie, morali e politiche di Hasdeu (non Petriceicu-Hasdeu, come scrivono molti tra cui talora lo stesso Eliade, perché Petriceicu non è la prima parte del cognome, ma il secondo nome dopo Bogdan, adottato dallo stesso Hasdeu nel 1857 per collegarsi idealmente al voivoda di Moldavia Ştefan XI Petriceicu dal quale pretendeva di discendere), Eliade pubblicherà un’antologia in due volumi di quasi mille pagine nel 1937. Come sottolineò un critico del tempo, malevolo ma non privo di sottigliezza, l’asse principale della lettura eliadiana passa attraverso «il soggettivismo di Mircea Eliade» stesso. Non lasciano dubbi al riguardo le parole dello stesso autore nella lunga prefazione: «La struttura magica del pensiero di Hasdeu si manifesta in tutta la sua opera: orgoglio e azione nella vita e nella lotta politica, elogio dell’eroismo e dell’ambizione imperiale, fede nel suo genio e nella missione del suo popolo, ottimismo» (parole che sembrano un autoritratto dell’Eliade entusiasta legionario del 1937, ben diverso dall’Eliade sfiduciato e quasi nichilista dei primi anni dell’esilio). La conoscenza dell’opera e del pensiero del grande «enciclopedista e profeta culturale» – come lo chiama Eliade – moldoveno è fondamentale per ricostruire la formazione di Eliade (il suo influsso pare secondo solo a quello di Mihai Eminescu e di Nae Ionescu). I due scritti eliadiani più importanti al riguardo sono raccolti nel volumetto Despre Eminescu şi Hasdeu (Iaşi 1987, pp. 57-110), a cura e con una illuminante prefazione di M. Handoca. Nel cap. IV, Pratiche popolari, miti, scienza e misteri, l’A. traccia in un certo senso il tragitto di Eliade dalla «intuizione magica del mondo» (formula dello stesso Eliade), che si allea allo studio delle funzioni del mito come «storia vera» (una definizione questa però dell’Eliade maturo, ripresa da un’analoga formula dell’italiano Raffaele Pettazzoni), alla peculiare concezione della visione del mondo romena, e in genere arcaico-contadina, letta come «religione cosmica». Gli studi di folclore botanico comparato, fra i quali primeggiano quelli, assai approfonditi, che Eliade dedica allo studio della mandragora, dal 1933 al 1939 (l’ultimo di sintesi in francese apparso sulla sua rivista «Zalmoxis»), lo portano alla convinzione che esistono «alcuni elementi comuni in tutte le culture popolari» (così l’A., p.112). Il lettore italiano può trovare due di questi saggi nella affidabile traduzione di R. Scagno, in M. Eliade, I riti del costruire (Milano 1990), che contiene i noti Commenti alla Leggenda di Mastro Manole, La mandragola e i miti della ‘nascita miracolosa’ (1940-42) e Le erbe sotto la Croce (1939), oltre a una sobria ma incisiva prefazione del curatore che andava forse menzionata nella bibliografia raccolta dall’A., che include invece solo lavori in lingua romena. Il cap. V, Medicina e alchimia. Presenza fantastica e folclore come strumento di conoscenza, disegna brevemente ma efficacemente il percorso che conduce Eliade dagli studi di folclore, storia della medicina popolare e alchimia asiatica, alla sua particolare visione della storia (come res gestae non meno che historia rerum gestarum) delle religioni. Illuminanti a questo riguardo, oltre ai contenuti del noto saggio del 1937 col titolo ripreso appunto nel sottotitolo di questo capitolo, saggio disponibile in traduzione sia italiana sia inglese, le parole del testo In dialogo con Lucian Blaga (sempre del 1937), qui riprese dall’A. (p. 132): «In tutte le religioni, come nelle superstizioni di tutti i popoli, si trovano le tracce di alcune esperienze particolari, antichissime, le quali oggi, nella attuale condizione mentale dell’uomo, non sono più, in gran parte, accessibili». Due le conclusioni dell’A.: 1. «Movendo dagli elementi folclorici e dalla presenza fantastica che si manifesta per loro tramite, Eliade fu il primo che ha presentato (e interpretato) una ricchissima tavolozza di dati e fenomeni religiosi e ha osservato che alle loro spalle esiste un modello comune» (p. 134); 2. «L’interdisciplinarità è stata (ed è) una componente importante [noi diremmo fondamentale] della ricerca scientifica» (p. 140). Un paio di riflessioni conclusive. Tra i saggi menzionati dello scienziato Bologa ce n’è uno (pubblicato nel 1936 su «Gândirea», la rivista di mistica ortodossa guidata dal teologo tradizionalista Nichifor Crainic [1889-1972], antisemita in chiave marcionita senza essere militante nella legione di Corneliu Zelea Codreanu, che dopo la guerra collaborò col regime comunista) che porta un titolo speciale – ma per niente sorprendente, vista la sede di pubblicazione e l’epoca: Storia della medicina e delle scienze, nuovo umanesimo, sintesi. Anche le scienze potevano dunque prendere la direzione del «nuovo umanesimo», aiutare a costruire l’«uomo nuovo». E non solo le scienze esatte, anche le scienze umane come la filologia e la storia. In quello stesso periodo, agli inizi degli anni Trenta, infatti, Werner Jaeger (1888-1961), professore a Berlino e massimo esponente della Altertumswissenschaft dell’epoca, inneggiava in Germania a un «nuovo umanesimo» da perseguirsi attraverso l’imitazione e l’attuazione degli ideali della Grecia classica, non certo quelli del «romenismo» ortodosso e ipernazionalista. Attorno a lui si era formato un circolo di filologi «neo-umanisti», tra cui primeggiavano altri due filologi classici insigni, entrambi di etnia ebraica, Paul Friedländer ed Eduard Fraenkel. Col sopravvenire dei pogrom e delle leggi razziali nel 1938, i due ebrei persero il posto, furono internati e poi riuscirono ad emigrare in USA e Gran Bretagna rispettivamente. Lo stesso Jaeger, che era ariano ma aveva in pubbliche conferenze (Humanistische Reden und Vorträge, pubblicato nel 1937) velatamente criticato l’ideologia del regime di Hitler e per di più sposato un'ebrea, fu rimosso dal suo incarico universitario e fin dal 1936 emigrò negli Stati Uniti. Che cosa significa tutto ciò? Che non tutti i «nuovi umanesimi» e gli «uomini nuovi» sono uguali, e non tutti – come gridano ai quattro venti studiosi di scarsa attendibilità scientifica – sono funzionali all’installazione di un regime totalitario e portatori di una ideologia antisemita. Tesi, questa, invece ardentemente sostenuta da un autore (M. Gardaz) in un articolo il cui contenuto si può riassumere nella felice formula inglese «what is true is not new, and what is new is not true». Non è mio costume polemizzare con studiosi che costruiscono teoremi basandosi su «fonti» di seconda o terza mano e non sono neanche in grado di leggere correttamente le fonti. Basti solo menzionare qualche eloquente dato di fatto. Eliade utilizza certamente con una certa frequenza l’espressione «omul nou» (l’uomo nuovo) in molti saggi del 1932-33, senza averla inventata lui: era, infatti, utilizzata costantemente negli scritti degli intellettuali suoi contemporanei, sia di destra sia di sinistra, sia legionari, sia comunisti (cfr. M. L. Ricketts, Radăcinile româneşti ale lui Mircea Eliade, Bucarest 2004, Vol. I, p. 545). In quegli anni il Nostro, per quanto profondamente pervaso di patriottismo e convinto assertore della superiore missione del popolo romeno, sulle orme di Eminescu e di Hasdeu, nonché seguace sul piano filosofico della metafisica di Nae Ionescu, era su posizioni di assoluta neutralità politica, per avvicinarsi progressivamente al movimento fondato da Codreanu solo sul finire del 1936 e prendendo ufficialmente posizione a fianco dei legionari solo nel gennaio del 1937. Un altro fatto che emerge chiaramente dalla ricerca dell’A. è la profonda fascinazione che Eliade sentiva nei confronti del metodo scientifico (cfr. p. 78, 140 e passim), in particolare di quello rigoroso delle scienze naturali (o esatte, o «dure»), e come di riflesso nutrisse una radicale diffidenza per ogni approccio di tipo amatoriale. Era questo un carattere talmente distintivo della sua figura intellettuale che non poteva sfuggire neanche all’intelligenza non troppo raffinata di un agente della Securitate, la polizia segreta della Romania Comunista fondata nel 1948 e abolita – almeno teoricamente – nel dicembre 1989. In una «Nota informativa» compilata dall’agente «Anton» e ripresa dal luogotenente maggiore N. Deaconu in un rapporto del 29.08.1966 alla direzione centrale (S. Tănase, Cioran şi Securitatea, Iaşi 2010, p. 184) si legge testualmente: «Cu toată orientarea sa mistică, Eliade are şi atitudini de om de ştiinţă, de ştiinţa exactă, materialistă şi unele studii despre folclor sînt valable şi la noi» («Con tutto il suo orientamento mistico [naturalmente “mistico” dal punto di vista del materialismo storico], Eliade ha un’attitudine da uomo di scienza, di scienza esatta, materialista, e alcuni suoi studi sul folclore sono validi anche per noi»). Di fatto, l’agente «Anton» coglie lucidamente il paradosso (relativo, peraltro: si pensi alla tensione mistica presente nella epistemologia di L. Wittgenstein) della forma intellettuale di Eliade e vede giusto là dove invece fanno cilecca miriadi di specialisti educati nelle più prestigiose università del mondo, ma succubi di stereotipi formatisi sulla base di una conoscenza del tutto parziale dell’opera multiforme di Mircea Eliade. Giovanni Casadio |