«Canale Mussolini», ovvero l’altra faccia del fascismo. Alla memoria di Antonio Pennacchi

«Bello o brutto che sia, questo è il libro per cui sono venuto al mondo. Sapevo, fin dall’età di sette anni, di dover scrivere la storia della mia famiglia e del mio podere. Ma fu un calice che ho sempre tentato di allontanare perché per me la scrittura è dolore. Le mie storie nascono dalla pancia, sono storie che devi scavarle dal di dentro». Così ebbe a scrivere, di suo pugno, Antonio Pennacchi nella prefazione del suo Canale Mussolini, vincitore del Premio Strega nel 2010, in cui si narrano le vicende della famiglia Peruzzi, alter ego della propria, che negli anni ’30, insieme ad altre tremila famiglie, si portò giù per la bonifica dell’Agro Pontino, a sud di Roma, in quel tempo un’immensa distesa paludosa infestata dalla malaria, partecipando a quell’esodo massiccio di contadini ed ex combattenti – delusi dalla ‘fredda’ accoglienza al loro ritorno dalla prima Guerra Mondiale – dalle zone più povere e disagiate del Friuli, del Veneto e del ferrarese.
Con la speranza di un lavoro e una miglior condizione di vita, una moltitudine di fittavoli e mezzadri si stabilirono così in quelle terre che attendevano di essere colonizzate. Coloro che avevano poi combattuto nella guerra del ’15 -’18 avevano, altresì, diritto a una casa con un pezzo di terra annesso. Non tardarono, però, i malintesi e i conflitti con i locali che vivevano lì da sempre sulle colline circostanti l’immensa palude, i quali mal tolleravano i nuovi arrivati che appellavano polentoni o cispadani; di contro, questi ultimi appellavano a loro volta gli stanziali marocchini. Solo l’immane tragedia della Seconda guerra mondiale, scelleratamente combattuta al fianco di Hitler, con lo sconvolgimento e distruzione delle terre risanate da poco e città edificate ex novo rase al suolo come Aprilia, Littoria (in seguito chiamata Latina), Sabaudia, ecc., poté compiere l’inaspettato miracolo di saldare la frattura tra marocchini e polentoni. Sì, perché con lo sbarco degli anglo-americani ad Anzio, il canale Mussolini, che avevano scavato con fatica di braccia e sudore, diventa per quattro mesi la linea del fronte che separa inglesi e americani da una parte e tedeschi, fascisti repubblichini e coloni dall’altra. I coloni, ovviamente, tenevano per i fascisti e i tedeschi, non fosse altro che per una questione di opportunità e di convenienza. Mentre ai loro occhi gli anglo-americani erano i ‘cattivi’ invasori che stavano distruggendo le poche cose che possedevano ma soprattutto il loro lavoro: il canale, le opere di bonifica con i campi nuovamente riallagati, per non parlare delle tante vite umane perse. Alla fine della guerra è tutto da rifare: gli argini del canale da ricostruire, le terre da riprosciugare, le città da edificare nuovamente. Ma i coloni tirandosi su le maniche ricompongono tutte le tessere divelte del loro bel ‘mosaico’ pontino. È la rinascita, la rivincita della vita sulla morte.
Canale Mussolini è un romanzo di una «sagra familiare» che si svolge in un arco temporale definito, sulla scia de Il mulino del Po di Riccardo Bacchelli, in cui, attraverso le vicende di una famiglia, si raccontano quasi cento anni di storia d’Italia e dal quale Pennacchi disse di aver preso spunto, ma anche de Il placido Don di Solochov o Il dottor Živago di Pasternak. «Io non mi occupo del presente, io cerco di capire il passato per tentare di interpretare il presente». Queste le parole di Antonio Pennacchi a chiarimento di questa sua scelta, così come quella di gran parte di altri suoi libri.
L’impostazione narrativa del romanzo si presenta come quella di una lunga intervista colloquiale con un interlocutore immaginario, ed è raccontato in soggettiva da uno dei protagonisti della storia, la cui identità sarà svelata, però, solo alla fine. La storia è quella di una numerosa famiglia contadina patriarcale veneta, i Peruzzi, che va dal 1904 fino al 1944 con lo sbarco ad Anzio degli anglo-americani. Un lasso di tempo che vede i protagonisti messi a dura prova con la lotta per la sopravvivenza, l’ascesa del fascismo e due guerre mondiali. I personaggi, a partire dal nonno e la nonna, presentano tutti un carattere deciso e volitivo, forgiato dal duro lavoro nei campi, dalle guerre e dalle mille difficoltà di ottemperare ai quotidiani bisogni primari. Ai capostipiti fa seguito tutta la fila dei fratelli e delle sorelle, dei cognati e delle cognate, tra i quali colpisce la bella ed enigmatica Armida, la moglie dell’impetuoso Pericle, con le sue api portate giù in un’arnia nel lungo viaggio in treno. Lo scenario degli avvenimenti è quella pianura bonificata dell’Agro Pontino di cui il canale Mussolini ne è il simbolo. Il linguaggio usato da Pennacchi è un linguaggio popolare scarno e asciutto, con allusioni frequenti alla parlata dialettale veneta.
Inutile dire che questo romanzo non abbia avuto delle critiche e tentativi di censure a partire dal titolo; infatti, l’editore suggerì a Pennachi di cambiarlo essendo quel nome in copertina un po’ troppo… ingombrante. Ovviamente l’autore si rifiutò dicendo che non era colpa sua se il canale l’aveva fatto costruire Mussolini. Più taglienti furono, invece, le critiche mossegli secondo una ‘certa’ lettura politica degli eventi che, per taluni, rasentava l’apologia del fascismo. A ingenerare questo giudizio, l’imputato numero uno era il personaggio di Pericle. Col suo fisico scolpito e il suo carattere sanguigno, di quelli che gettano prontamente il cuore oltre l’ostacolo, Pericle incarnava il prototipo dell’uomo stigmatizzato dalla retorica fascista. A questa lettura, si aggiungano i soprusi del regime e gli assassinii spesso presentati come errori o furfanterie solo un poco eccessive. Non è così. Antonio Pennacchi, in ogni sessione pubblica o con scritti, ha sempre tenuto a precisare che il fascismo è stato una iattura per il nostro paese: le leggi razziali del ’38, l’entrata in guerra al fianco della Germania, l’abolizione del diritto di sciopero, la legge liberticida sulla stampa e di molte altre libertà individuali e collettive. Ma, osservava Pennacchi, è pur vero che molti della sua famiglia, al pari di tutti gli altri coloni, furono fascisti, sì, ma per una circostanza di natura, per gratitudine verso chi ha ridato loro una nuova speranza di vita. Non dimenticando, a tal proposito, che Mussolini espropriò le terre a molte famiglie aristocratiche romane per darle ai polentoni venuti dal nord. E aggiungeva, da uomo libero qual era, che molti italiani furono fascisti, più di quanto si voglia far credere. Gli dicevano che aveva coraggio a dirlo. «Nessun coraggio, rispondeva, questa è una storia, l’ho vissuta e l’ho raccontata. Il coraggio, invece, ce l’hanno quelli che dicono che in Italia nessuno è mai stato fascista. Quelli che pensano che siano bastati due anni, dal ’43 al ’45, ovvero gli anni della resistenza, per battezzare, legittimare, benedire tutti i ‘peccati’ fatti da loro in precedenza. Se c’è una forza nella mia scrittura, è esclusivamente questa, che sono il primo a dire queste cose, a raccontarle». Nasce da qui la sua teoria dell’inconoscibilità del reale, vale a dire che la ricerca del vero dev’essere una priorità dell’essere umano. Ma è una lotta titanica: l’uomo non arriverà mai alla verità, può solo tenderci. Siamo portatori di una porzione del reale, non di tutto il reale. Il sospetto che possano anche avere ragione gli altri e che la tua verità non è assoluta, tu lo devi avere.

Antonio Pennacchi, biografia

Discendente di operai provenienti dall’Umbria da parte paterna e di coloni provenienti dal Veneto da parte materna, giunti nel Lazio in occasione della bonifica dell’Agro Pontino, Pennacchi è nato a Latina nel 1950 in una famiglia di sette figli. Giovanissimo si iscrive alla Movimento Sociale Italiano, ma ben presto entrando in contrasto con i vertici del partito ne venne espulso. Si avvicina al marxismo e successivamente ai maoisti. Ha lavorato come operaio in una fabbrica di cavi per oltre trent’anni. È stato sindacalista nella CGIL, dalla quale venne poi espulso. Entra nella UIL, passa al PCI e di nuovo alla CGIL da cui è nuovamente espulso nel 1983. Lascia definitivamente la politica e consegue la laurea in Lettere, approfittando di un periodo di cassa integrazione. La sua attività di scrittore inizia nel 1994 con il suo romanzo d’esordio Mammut. Tra gli altri suoi romanzi più famosi ricordiamo: Una nuvola rossa del 1998; Il fasciocomunista del 2003 dal quale fu tratto il film Mio fratello è figlio unico per la regia di Daniele Lucchetti; Canale Mussolini del 2010; La strada del mare del 2020. Antonio Pennacchi muore nella sua Latina il 3 agosto del 2021, colpito da un infarto.






Giovanni Abbate
(n. 10, ottobre 2021, anno XI)