Il dolore che trasforma: Ilse Weber

Il dolore prende forma nello sguardo. Quando se ne parla, bisognerebbe mettere una mano sulla bocca per impedire che escano parole inutili, vuote. Il dolore estremo, la violenza disumana, la sofferenza inaudita sono come porte in ferro che chiudono l’uomo in un silenzio muto. Il silenzio, per sua natura invece, è ascolto attento, vivo, profondo di sé, ma quando dolore e sofferenza soffocano le parole, si arriva persino a divenire estranei a se stessi. Inizia il cammino lento e progressivo della morte interiore, gli occhi si spengono perché l’anima è oscurata, buia.
La storia dell’umanità ha vissuto tempi nefasti, orrendi; uno di questi è impresso nella memoria con la persecuzione contro gli ebrei e la soluzione finale nei campi di sterminio. Ogni Paese dell’Europa centro-orientale ha pianto i suoi. Milioni sono stati i morti, pochi i sopravvissuti. Alcuni di loro raccontano quanto vissuto e sono testimoni viventi delle barbarie compiute dai nazisti. Altri, invece, pur essendo morti nei campi di concentramento continuano ad esistere attraverso lettere, poesie, scritti maturati nella restrizione dei ghetti e delle baracche. Erano la poesia, il canto, la musica a tenere viva la flebile speranza nel cuore di uomini, donne, anziani, bambini.

Ilse Weber è stata una giovane donna ebrea cecoslovacca che ha tenuto accesa la lampada della vita in una situazione di dolore e morte. Nel libro Quando finirà la sofferenza? Lettere e poesie da Theresienstadt (Lindau, Torino 2013, pp. 292, € 24.50) sono raccolte sia le lettere che Ilse inviava alla sua amica Lilian in Inghilterra, sia le poesie e le canzoni che scriveva appositamente per i bambini ebrei internati nel campo di Theresienstadt, antica città-fortezza asburgica a circa 60 chilometri a nord di Praga, trasformata in campo di smistamento dei deportati durante la seconda guerra mondiale.
Siamo nei primi anni ’30 in Cecoslovacchia, a Witkowitz, vicino a Ostrau, al confine con la Polonia. Ilse, nata nel 1903, è sposata con Willi Weber, e dal loro matrimonio nascono due figli: Hanuš e Tomaš. Ilse è una donna moderna, un’artista, è autrice di radiodrammi e libri per l’infanzia. Scrive in tedesco, la lingua della minoranza ebraica, ma si sente profondamente cecoslovacca. Fin dalla giovinezza ha un’intensa corrispondenza con l’amica del cuore, Lilian von Löwenadler, figlia di un diplomatico svedese che vive in Inghilterra: Lilian rivestirà un ruolo fondamentale nella vita di Ilse, divenendo l’interlocutrice protagonista nel rapporto epistolare.
Nella vita quotidiana della Cecoslovacchia, avvelenata dalla crescente influenza del nazismo e dell’antisemitismo, Ilsa sente una catastrofe di cui non distingue, come si evince dalle prime lettere inviate a Lilian, la portata e le dimensioni. Nel 1939 avviene la svolta cruciale: Ilse e suo marito Willi riescono a mandare il figlio Hanuš in Inghilterra, da Lilian. Questa scelta sarà la salvezza di Hanuš dallo sterminio. Tre anni dopo, nel 1942, Ilse, Willi e il loro secondo figlio Tomaš vengono deportati a Theresienstadt. Nel 1944 Ilse e suo figlio Tomaš vengono trasferiti ad Auschwitz, dove moriranno nelle camere a gas. Willi, invece, riesce a sopravvivere e a ritrovare suo figlio Hanuš.
Nel periodo di permanenza forzata a Theresienstadt, Ilse lavora come infermiera nel reparto pediatrico. I bambini sono sempre stati la sua grande passione. Per i bambini del reparto, e per gli altri prigionieri, Ilse scrive poesie e canzoni (la seconda parte del libro), canta e suona la chitarra. Poco prima della deportazione ad Auschwitz, suo marito Willi riesce a nascondere i fogli con le poesie della moglie sotto la baracca a Theresienstadt, riuscendole a recuperare negli anni successivi. Per una serie di coincidenze, dopo decenni, in Inghilterra riemergono anche le lettere che Ilse aveva scritto all’amica Lilian negli anni ’30 (la prima parte del libro).

Un itinerario di conoscenza e trasformazione

Ilse Weber non si limita a scrivere solo ciò che vive, sperimenta, soffre ma compie un gesto capace unicamente a chi si è lasciato trasformare dal dolore: prende per mano il lettore facendolo sentire suo compagno di cammino. Ilse dona al lettore la forza di guardarsi dentro e di meglio conoscere il suo mondo interiore. Sì, perché lo scrivere di Ilse parte dal profondo e arriva all’intimo dell’anima di chi si approccia alla meditazione di queste pagine. Ilse Weber, mentre compie i «trasferimenti forzati» da un posto all’altro della sua amata terra, sino al capolinea del campo di sterminio di Auschwitz, pone in atto altri cammini e percorsi che rappresentano la vera struttura del libro.
Uno di questi è il rapporto con suo figlio Hanuš che Ilse ha salvato da morte certa inviandolo dalla sua amica Lilian, in Inghilterra, e successivamente alla morte di costei, dalla madre Gertrude. È la preoccupazione di una madre per suo figlio, il suo futuro, sino a distaccarsi da se stessa e ricercare unicamente il bene dell’altro: «La preoccupazione di Ilse per il suo benessere si placò soltanto dopo che la madre di Lilian accolse suo figlio in casa sua» (p. 58). Scrivere diviene l’ossigeno che permette a Ilse di respirare e di tenere in vita il polmone del rapporto con suo figlio in Inghilterra. «Hanuš conosce la vita di sua madre attraverso le lettere, le poesie, i racconti e gli appunti. Offrono uno sguardo sul microcosmo del terrore». Ilse descrive nelle sue lettere, con chiarezza e precisione, come l’antisemitismo avvelenasse la vita degli uomini. Attraverso le lettere di sua madre, Hanuš ha appreso molto di più di quanto la gran parte dei figli sappia dei propri genitori. Immerso in un clima di odio Ilse ha sempre indicato al figlio esiliato di coltivare la forza interiore e di crescere nel bene. In una lettera del 29 settembre 1941, scrive: «Hanuš, stammi bene e sii bravo! Non devi essere mica forte come Tarzan, – è difficile che ti capiti di dover uccidere i leoni col coltello! Ma sii forte nello spirito, e non dimenticare la tua promessa: dire sempre la verità, mio tesoro ed essere riconoscente» (p. 184). E in una lettera di dicembre del medesimo anno, appunta: «Tu devi abitare in terra straniera, e noi qui. Ma non dobbiamo essere tristi! Tu hai tutto ciò che io desidero per te. Hai amore, una casa, libertà e pace. Vedi, – qui da noi – avresti avuto solo l’amore, ma io volevo che tu potessi avere anche tutto il resto» (p. 185).
Altro percorso caratterizzante il libro è il duplice amore per la patria e la religione. «Amo la mia patria con un fervore quasi doloroso – scrive Ilse alla sua amica Lilian –, sono cecoslovacca fino al midollo, non peggiore di quelli che dipingono noi ebrei come inferiori, cattivi e degenerati, no, al contrario, io sono migliore, lo dico senza falsità e modestia, so chi e cosa sono» (p.127). Nella lettera del 24 marzo 1939, a proposito della religione, scrive: «Di essere ebrea non mi sono mai vergognata. Ma ora, quando siamo cacciati e perseguitati come bestie, quando viene rubata la patria, quella patria in cui siamo vissuti con onore per secoli, ecco io porto il mio ebraismo con dignità. Oggi io credo di nuovo in Dio e nella volontà divina. Tutto ciò che sta succedendo ora ha sicuramente un senso, un senso che oggi non riconosciamo ancora, che tuttavia è nascosto in quello che sta avvenendo. Noi ebrei siamo le vittime, ma non siamo solo noi a essere infelici» (p. 148). Ed ancora a p. 241 si legge: «Circondati dalla morte e dall’orrore, non dobbiamo perdere la fede in noi stessi, dobbiamo costruire altari alla gioia, nei quartieri affollati e bui».

«Colma di dolore, senti la tua solitudine»

Le poesie che Ilse scrive a Theresienstadt, in alcuni passaggi assumono lo stile della preghiera, invocazioni a Dio. Ciò che i suoi occhi vedono, passando per il filtro del cuore, si trasformano in parole che vibrano nell’animo del lettore. Nell’assistere al quotidiano rito dei corpi caricati sui carretti, dove unitamente si trasportava il pane distribuito poi nel ghetto, Ilse appunta «corpo giace accanto a corpo, porti la pena dell’altro, e colma di dolore senti la tua solitudine» (p. 227).
Ilse, nel prestarsi come infermiera nel ghetto di Theresienstadt, ha trasformato poesia e canto in benefiche medicine per sé e gli altri sventurati, specie i piccoli, i fanciulli. Nella poesia della Ninna Nanna a Theresienstadt scrive: «Dormite tutti voi piccoli, biondi o bruni, della Boemia, Moravia, delle terre della Germania. Nonostante tutto, se Dio vuole, diventerete grandi. Ora vacilliamo tutti, oppressi e bisognosi, ma ad ogni notte segue l’alba» (p. 220). Questo elemento della poesia e della musica viene evidenziato anche nel testo poetico Musica proibita: «Con la parola del poeta e un po’ di musica vogliamo sfuggire alla miseria, dalle canzoni semplici facciamo fiorire un po’ di felicità e benefico oblio» (p. 241).
La tragedia della guerra, infine, annulla ogni differenza sociale e culturale tra le persone. È la stessa Ilse Weber ad evidenziare questo aspetto, non senza rammarico, nella poesia Le persone importanti: «Quale benedizione avrebbe portato il loro esempio, condividere fieri e dignitosi il nostro destino. Se solo si mostrassero uguali a noi e ci insegnassero a non disperare» (p. 259). Nella poesia Discorso nel corridoio Ilse accentua l’insignificanza della differenza sociale in un campo di concentramento, uno accanto all’altro: «La moglie del dottore, la moglie del consigliere, la moglie dell’ingegnere. Non sono forse scomparse da tempo nel nulla appellativi e gioie importanti? Qui non interessa a nessuno. Qui siamo prigionieri, ognuno è solo un numero. Ma spogliato da ogni sfarzo, quello che ciascuno era veramente nel passato, lo si rivela nella vita di comunità» (p. 252).
Da ogni libro si impara qualcosa. Diversamente, è una perdita di tempo.




Giacomo Ruggeri
(n. 7-8, luglio-agosto 2013, anno III)