Spazio Cioran: Caro Arșavir... «Quanto siamo stati stupidi!» Nel 1928, Emil Cioran (1911-1995) arriva a Bucarest da Sibiu. Frequenta le lezioni di filosofia e le sale della biblioteca universitaria, immergendosi nelle opere dei pensatori tedeschi. Proprio tra queste mura, l’insonne e lirico Cioran incontra un giovane giornalista armeno, Arșavir Acterian, studente di giurisprudenza e, con Eliade, Noica e altri intellettuali romeni, membro di quella che verrà ricordata come «generazione del ‘27». Perché, dunque, lo scambio epistolare fra Cioran e Acterian è così importante? Di Cioran ormai si conosce bene il pensiero: negli ultimi anni, grazie ai lavori di ottimi studiosi, in primis proprio Di Gennaro, il pensatore di Rășinari ha finalmente perduto l’aurea di maudit, artista della filosofia e, oggi, se ne può studiare l’impianto, la sua forma, la struttura di una Weltanschauung ben chiara e definita. Un momento importante e meno noto riguarda proprio i primi anni di produzione letteraria di Cioran, che lo stesso cercherà di lasciar dimenticare: la vicinanza al fascismo romeno (che costerà ad Acterian i campi di rieducazione, ad altri del gruppo Criterion il carcere, dopo la guerra) è un fatto innegabile. Personalmente, credo che non esista un Cioran politico: la sua vicinanza giovanile alle idee professate da Codreanu è figlia di una ricerca spirituale, di un sentimento e di un vitalismo esasperato e feroce in un insonne assetato di emozioni, di volontà di potenza e altrettanto mortificato da un senso di profonda lontananza dalla vita degli altri, dalla pace e dalla serenità a lui negate. Cioran non poteva non innamorarsi dei pensatori che sognavano un rinnovamento prima di tutto spirituale, in contrasto con la decadenza occidentale, che poi sfociava in un’idea politica di grandeur. Non poteva non essere affascinato, ventenne, da Hitler e dalla sua furia. Tuttavia, non poteva, esattamente per le stesse ragioni, che attraversare quest’esperienza solamente per superarla: Cioran, con gli occhi e il cuore rivolti al cielo, rapito dal suo bestemmiare dio per poterci parlare, pessimista in senso Leopardiano e vitalista in senso nietzschiano; pieno delle sue lacrime e dei suoi Santi, dei pensieri di carne e di sangue, non poteva che appassionarsi a quel clima, quel fervore emotivo, quello spirito (Zeitgeist), più che ai concetti che questo esprimeva. Non poteva, soprattutto, che farne un ragionamento puramente teorico, un esercizio, uno slancio quando non, addirittura, una posa. Quando guardò al di là e ne vide la prassi, ne capì le risultanze materiali, dalla Romania se ne andò per non tornarvi più. Ed è palese l’imbarazzo del pensatore per le scoperte delle sue opere giovanili, per l’essere menzionato riguardo la questione dei fascismi europei. Cioran decise di tacere, di non aver semplicemente più nulla da dire su un periodo brevissimo della sua vita e di poco valore per la storia del suo pensiero. Tuttavia, questo momento ne ha influenzato, a mio avviso, la diffusione e ricezione, passata a volte attraverso la pubblicazione faziosa della sua opera (in Italia, accadde con le Edizioni Il Borghese) che ne causeranno l’ostracismo dalle università, immerse in un clima culturale di opposta visione politica. Antonio Di Gennaro ha la capacità di fare dei lavori su Cioran, ciò che Cioran faceva con le proprie opere: unire il lettore neofita allo studioso, regalando a entrambi un accrescimento. Possiamo leggere L’orgoglio del fallimento (a cura di Antonio Di Gennaro, trad. di Magda Arhip e Laureto Rodoni, Milano-Udine, Mimesis Edizioni, 2021) senza conoscere l’opera del pensatore romeno e allora troveremo uno scambio intellettuale e affettivo fra due studiosi, due amici, di cui potremo vedere il mutare dei sentimenti attraverso gli anni: «come te, mi sono lasciato completamente alle spalle, e da molto tempo, i miei furori giovanili. A tale proposito, in questi ultimi tempi ho avuto dei guai abbastanza seri con degli “amici” di allora – insomma, tu capisci. Se ci penso, che smarrimento! Un vento di follia e stupidità soffiava su di noi. Devo anche dire che ho sofferto molto (sul piano morale, ovviamente) a causa di quest’entusiasmo d’un tempo. Me lo si rimprovero spesso, e ovunque. D’altra parte ritengo che sarebbe poco elegante, in questo momento, proclamare la mia dissociazione e fare la parte del rinnegato. Tutto questo è definitivamente passato: sembra preistoria.» [3]. Potremo coglierne l’acume, i riferimenti a un periodo storico travagliato, a concetti complessi come la lingua, la patria, il destino.
Fabio Rodda
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