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Herta Müller e la minoranza di lingua tedesca in Romania: un viaggio nel passato
Nel nostro Focus incentrato sulle scrittrici romene, Herta Müller, la famosa scrittrice di lingua tedesca nata nel 1953 in Romania, nella regione del Banato, che ha conosciuto una rinnovata e più ampia notorietà anche in Italia dopo aver vinto il premio Nobel per la letteratura nel 2009. Nel 2010 sono stati pubblicati in versione italiana i due romanzi che intendiamo prendere in considerazione in questo articolo: L’altalena del respiro, pubblicato da Feltrinelli (l’originale in tedesco era apparso nel 2009 col titolo Atemschaukel) e Il paese delle prugne verdi, pubblicato dall’editore Keller di Rovereto (l’originale in tedesco era apparso nel 1994 col titolo Herztier). Queste due opere ci permettono di fare un viaggio in compagnia della scrittrice attraverso due periodi drammatici della storia della Romania (e dell’Europa più in generale): la prima, infatti, ci riconduce agli anni tra la fine della seconda guerra mondiale e il primo dopoguerra, mentre la seconda ci riporta a quelli del regime comunista nell’epoca di Ceaşescu. In entrambi i romanzi le vicende storiche e sociali sono considerate dal punto di vista della minoranza di lingua tedesca in Romania, con spunti (particolarmente interessanti per noi) anche sulle questioni propriamente linguistiche.
Il periodo tra la fine del secondo conflitto mondiale e i primi anni del dopoguerra
Le vicende narrate nel romanzo L’altalena del respiro si svolgono a partire dagli ultimi mesi del secondo conflitto mondiale. Nel gennaio del 1945 un ragazzo di 17 anni (voce narrante) viene prelevato da Hermannstadt insieme ad altri giovani di lingua tedesca della Transilvania per essere deportato, con un lungo e disagevole viaggio in treno, in un lager presso Novo Gorlovka, in Ucraina (allora territorio sovietico), dove passerà 5 durissimi anni. Era il periodo della persecuzione staliniana inflitta ai romeni di lingua tedesca, accusati di adesione al regime nazista. In effetti, i genitori del ragazzo hanno creduto nell’ideologia hitleriana e hanno considerato la propria comunità germanofona come di pura razza ariana e di etnia tedesca, distinta e superiore rispetto agli altri abitanti del Paese. Il ragazzo, poi, ha anche dovuto nascondere la propria omosessualità, tanto più che ha avuto rapporti con uomini non appartenenti alla sua «razza»: «Mia madre e soprattutto mio padre, come tutti i tedeschi della cittadina, credevano nella bellezza delle trecce bionde e dei calzini bianchi, alti fino al ginocchio. Nel rettangolo nero dei baffi di Hitler e in noi sassoni della Transilvania, noi razza ariana. Il mio segreto, in senso puramente fisico, era già l’abominio supremo. Con un rumeno c’era poi anche l’oltraggio alla razza» (p. 10). Nel lager le persone della minoranza di lingua tedesca si considerano come una nazionalità a parte rispetto ad altri abitanti della Romania ivi detenuti, come se non condividessero con loro una comune cittadinanza: «Eravamo tutti tedeschi e fummo strappati da casa. Tranne Corina Marcu (…). Era rumena (…). E David Lommer (…) era ebreo» (pp. 36-37). La lingua tedesca funge da pilastro di un’identità vissuta in modo distorto, come segno e motivo di superiorità rispetto agli altri. I germanofoni di Romania, però, si sentono comunque distinti anche dai tedeschi di Germania, che vengono chiamati «tedeschi estranei»: «Capivo che quei tedeschi estranei avevano tutto ciò che mancava ai nostri uomini» (p. 78).
Nel lager sovietico i giovani «sassoni» di Romania hanno, tra l’altro, un forte impatto, all’inizio molto sgradevole, con la lingua russa. In molti Paesi del mondo ancora oggi è la lingua tedesca ad avere l’immagine di lingua dura, gutturale, consona alla guerra, anche perché spesso l’unica esperienza che se ne ha è quella dei film ambientati proprio nell’epoca della seconda guerra mondiale, con gli ufficiali delle SS che urlano i loro ordini con voce aspra e spietata. Ma ogni lingua, in un contesto di violenza, può suonare dura e sgradevole. Per i germanofoni della Transilvania, prigionieri nel lager di Novo Gorlovka, è il russo a sembrare una lingua militaresca e terrorizzante, come si evince dalle parole del protagonista: «Il comandante del Lager, Šištvanenov, continuava a sbraitare. Il suo nome proprio non lo sapevamo. Si chiamava solo tovarišč Šištvanenov. Lungo abbastanza per far tremare dalla paura, quando lo si pronunciava. Al nome tovarišč Šištvanenov mi veniva sempre in mente il fragore della locomotiva che ci aveva deportati» (p. 23). E ancora: «Gli ordini russi suonavano come il nome del comandante del Lager, tovarišč Šištvanenov, uno stridere e un gracchiare fatto di ch, š, č, šč. Il contenuto dei comandi non lo capivamo comunque, il disprezzo invece sì. Al disprezzo ci si abitua» (p. 25). I suoni del russo, scissi dai significati che veicolano, sembrano rumori sgradevoli, non fonemi di una lingua verbale: «Con il tempo gli ordini riecheggiavano solo come un costante schiarirsi la gola, un tossire, starnutire, soffiarsi il naso, sputare – come espellere catarro. Trudi Pelikan diceva: Il russo è una lingua con il raffreddore» (p. 25). L’avversione per il nemico è vissuta come pregiudizio etnico e nel contempo linguistico nei suoi confronti.
A un certo punto, però, avviene che i prigionieri iniziano a capire singole parole del russo, che vengono usate dagli ufficiali e capite dai reclusi come olofrasi, ossia come singole parole in sostituzione di intere frasi: «Quando Kobelian diceva ‘kirpič’, noi capivamo che quel giorno avremmo caricato mattoni rossi e viaggiato per la steppa infinita» (p. 50). Col passare del tempo, i prigionieri si familiarizzano sempre più con la lingua russa, fino ad apprezzarne anche gli aspetti più gradevoli all’orecchio, come il fonosimbolismo di parole che suonano più soavi (perché designano oggetti più piacevoli) rispetto ad altre che suonano più aspre (in corrispondenza degli oggetti che designano). La lingua dell’altro, iniziando a conoscerla e a capirla, non è più una serie di sgradevoli suoni inarticolati, ma è una lingua come la propria, che può esprimere diverse tonalità di dolcezza o di asprezza: «Il carbone marka-ka viene dal pozzo di Rudnij, qui vicino. (…) E faticoso quanto scaricarlo è pure il nome di questo carbone. Marka-ka, puoi solo balbettarlo, non sussurrarlo come il nome del carbone da gas: hasomè. Il načal’nik lo chiama hasomè, pronunciandolo quasi in un sussurro. C’è dentro un’eco di dolore, come di un animale ferito. Perciò mi piace. (…) Cinque volte scroscia l’hasomè, leggero, grigio ardesia, ed è lui soltanto, senza detriti. Guardi e pensi: l’hasomè ha un cuore tenero» (p. 103). I suoni della parola e il modo in cui viene pronunciata dai russi danno sensazioni più gradevoli, associate a quel tipo di carbone che risulta più piacevole ai sensi rispetto a quello di antracite. In modo commovente, visto il contesto di guerra, odio e violenza, si è passati dall’antipatia e dal rifiuto iniziali alla conoscenza e all’apprezzamento, perché anche nelle circostanze più terribili possono riaffiorare nella natura umana quei lati positivi che consentono di non perdere del tutto la speranza in un futuro migliore.
Gli anni del regime di Ceaşescu.
Nel romanzo Il paese delle prugne verdi troviamo ancora dei giovani germanofoni di Romania, ma negli anni del regime di Ceaşescu. Infatti, la protagonista (e voce narrante) è una giovane donna appartenente alla minoranza di lingua tedesca e racconta le vicende sue e di alcuni suoi amici e conoscenti in un periodo molto cupo, segnato dall’oppressione politica e da una miseria materiale che rende difficile persino procurarsi il cibo per poter sopravvivere. La protagonista frequenta le scuole della sua città insieme ai suoi compagni; poi ciascuno se ne va per lavoro in una diversa città del Paese, ma tutti restano in contatto per via epistolare e ogni tanto si scambiano visite.
Seguendo il filo delle vicende dei personaggi e dei loro discorsi, si nota, tra l’altro, che la Romania dell’epoca viene rappresentata dalla Müller come un Paese dove le minoranze linguistiche tedesca e ungherese e la maggioranza di lingua romena non sembrano condividere una comune cittadinanza che vada al di là delle rispettive differenze linguistiche e culturali. Anzi, ciascuna comunità sembra considerare se stessa e le altre come nazionalità distinte più che come parti di un’unica comunità nazionale, sulla falsariga di quanto era già avvenuto nell’ambito ristretto del lager di Novo Gorlovka del romanzo L’altalena del respiro. L’appartenenza etnico-linguistica prevale sulla cittadinanza giuridica. I membri della minoranza tedesca si definiscono «tedeschi» o «svevi» e chiamano gli altri «rumeni» e «ungheresi». La madre della protagonista, ad esempio, a un certo punto la apostrofa così: «La signora Margit mi ha scritto che vai con tre uomini. Grazie a Dio sono tedeschi (…). Dio ci protegga, che un giorno non ti presenti alla mia porta con un qualche rumeno e non dica: Questo è il mio uomo» (pp. 177-78). La stessa signora Margit, l’ungherese che ha dato una camera di casa sua in affitto alla protagonista, accetta solo ospiti «tedeschi» o «ungheresi» e si rivolge a sua volta in questi termini alla ragazza: «Nincs love nincs muzsika, nessun soldo, nessuna musica, ma che si deve fare, se non hai soldi per l’affitto. (…) Non è facile trovare una ragazza tedesca o ungherese e non voglio nessun altro in casa mia» (p. 190). Le persone di madrelingua romena, dal canto loro, considerano se stesse come «romeni» e i membri delle minoranze linguistiche come se non fossero dei propri connazionali, ma degli stranieri. Ad esempio, un uomo ai cui figli la protagonista a un certo punto dà lezioni di tedesco, così le si rivolge: «I tedeschi sono un popolo orgoglioso, diceva l’uomo delle pellicce, noi rumeni siamo cani maledetti. (…) Il vostro Hitler si è fidato poco di noi» (p. 192). L’ultima frase costituisce un riferimento da brivido a momenti cupi del passato e getta un’ombra sinistra sulla minoranza di lingua tedesca, accomunandola al nazismo («il vostro Hitler»), nell’ambito di una tematica che abbiamo già visto presente ne L’altalena del respiro.
La protagonista e i suoi amici leggono di nascosto libri in tedesco e scrivono anche in tedesco (le lettere che si scambiano e altri tipi di testi) e sognano di andarsene nell’allora Germania Ovest, se necessario anche clandestinamente e a rischio della vita. Del resto, il poliziotto che a un certo punto prende a indagare su di loro li apostrofa una volta in modo sprezzante con queste parole: «Dato che scrivete in tedesco, perché non andate in Germania? Forse là vi sentite a casa nel pantano» (p. 200).
Nei libri tedeschi nascosti nella «casa estiva» i giovani trovano la loro «madrelingua», contrapposta alla lingua ufficiale della Romania, e trovano anche un profumo di libertà che manca nei testi stampati in Romania: «I libri della casa estiva venivano contrabbandati in paese. Erano scritti nella madrelingua in cui il vento si coricava. Non la lingua ufficiale del paese. (…) Nei libri si trovava la madrelingua, ma il silenzio del paese che vieta il pensiero nei libri non c’era. Credevamo che là, da dove provenivano i libri, tutti pensassero» (pp. 58-59). Quasi come se fosse un fatto simbolico, i libri tedeschi sono superiori a quelli romeni non solo sul piano dei contenuti, ma anche su quello prettamente materiale: «Annusavamo i fogli e ci scoprivamo con l’abitudine di annusare le nostre mani. Ci meravigliavamo che, leggendo, le mani non diventassero nere come con l’inchiostro da stampa dei giornali e dei libri pubblicati nel paese» (p. 59).
Il fatto di leggere e scrivere in tedesco rende per ciò stesso i giovani sospetti alle autorità. Questo problema si aggiunge a quello comune al resto della società romena sotto il regime comunista, cioè l’avere a che fare con la repressione e la censura ufficiali, specie se si vuole tentare di esprimere qualche pensiero in disaccordo con l’ideologia e la propaganda dominanti. Infatti, nelle lettere che si scambiano, i giovani, per timore delle ispezioni poliziesche, prendono ad usare un linguaggio cifrato, dove persino la punteggiatura assume significati reconditi. Si tratta di una sorta di gergo, di un sotto-codice, usato soprattutto per dirsi a vicenda se hanno avuto a che fare con la polizia per interrogatori, perquisizioni o pedinamenti: «Per l’interrogatorio una frase con forbici per unghie, disse Kurt, per la perquisizione una frase con scarpe, per il pedinamento una frase con raffreddato. Dopo il titolo sempre un punto esclamativo, per una minaccia di morte solo una virgola» (p. 93). I ragazzi avvertono un certo turbamento per il fatto di dover alterare la lingua e la comunicazione in questo modo e provano nostalgia per i processi semantico-referenziali normali, non soggetti ad aberrazione, e invidiano chi può continuare a parlare e ad usare le parole normalmente. La protagonista, ad esempio, ha un’amica, Teresa, che non è coinvolta in nessuna questione politica e può dunque esprimersi con naturalezza, usando la parola «scarpe» in senso letterale e non per riferirsi a una perquisizione poliziesca: «Teresa conversava ingenuamente. Parlava tanto e rifletteva poco. Diceva scarpe ed erano solo scarpe» (p. 119).
Raccontando questi aspetti, visti soprattutto attraverso la particolare sensibilità femminile per i problemi della quotidianità, la Müller rende molto bene l’idea di come sotto un regime totalitario la comunicazione (e con essa l’intera vita delle persone) possano risultare penosamente distorti. La speranza è che nella Romania e, più in generale, nell’Europa del giorno d’oggi si rafforzi sempre più la democrazia, in modo che, rispetto a quelle cupe epoche del passato che abbiamo brevemente rivisitato grazie ai due romanzi dell’autrice, l’espressione del pensiero e la comunicazione nelle sue varie forme restino libere e proficue, a vantaggio di tutti. L’altro auspicio, che inevitabilmente sorge dal confronto con il passato, è che in Romania come in ogni altro Paese il mantenimento e lo sviluppo della democrazia facciano sì che le diversità etniche, linguistiche e culturali, non siano fattori di divisione e conflitto, bensì di continuo scambio ed arricchimento reciproco, nella condivisione di una comune cittadinanza, che da nazionale diventi in prospettiva anche europea.
Donato Cerbasi
(n. 6, giugno 2022, anno XII)
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