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I «sussurri armeni» di Varujan Vosganian
Alla storia degli armeni, e non solamente di quelli approdati sui territori romeni, è dedicato, con ricchezza di spunti autobiografici, Il libro dei sussurri, romanzo che Varujan Vosganian – economista, matematico, poeta, prosatore e anche politico – ha recentemente pubblicato presso Keller Editore (traduzione di Anita Bernacchia). Doina Condrea Derer, uno dei più importanti italianisti di Romania, ce ne propone una penetrante lettura sin dal titolo che, «come precisò ripetutamente Vosganian, fa palese la propria fonte: le memorie evocate sottovoce dai nonni e dai loro amici, memorie introiettate sin dai primi anni di vita al punto di diventare vibrante materia poetica»
Da Antonia Arslan a Varujan Vosganian
Conoscevo da tempo i saggi di letteratura moderna italiana dell’universitaria patavina Antonia Arslan e colsi l’occasione per sentirla dal vivo all’inizio degli anni ’90, quando tenne una conferenza alla Biblioteca Sormani di Milano. Dopo la conferenza, a quattr’occhi, la pregai di andare a Bucarest a fare un ciclo di lezioni per gli studenti italianisti della Statale, precisando che il soggiorno avrebbe comportato non pochi disagi. Accettò subito, benché non sapesse chi fossi, dicendomi che lo faceva perché i romeni avevano accolto bene gli armeni quando si trovarono in difficoltà. Vi andò non molto tempo dopo e fece le sue ottime lezioni, per le quali ringraziarono gli studenti e i docenti, miei colleghi, tra cui Oana Sălişteanu, che l’aveva ospitata nella propria casa, in assenza, allora, di una foresteria universitaria decente; non io, rimasta ancora per qualche anno in Italia. La ringrazio sentitamente ora per aver accolto la mia preghiera di circa un ventennio fa, ma anche perché mi spinse più tardi coi suoi romanzi, La masseria delle allodole (Rizzoli, 2004) e La strada di Smirne (ibidem, 2009), ben accolti dalla critica e dal pubblico, a conoscere la storia degli armeni.
A questi si deve anche il mio interesse per la creazione letteraria di Varujan Vosganian e in particolar modo per Cartea şoaptelor (Polirom, Iaşi, 2009, pp. 530, tradotto in italiano da Anita N. Bernacchia, Il libro dei sussurri, per Keller Editore, collana Passi, 2011, pp. 480).
Le biografie tanto diverse dei due prosatori, Arslan e Vosganian, come diversa, a volte opposta, fu la sorte degli armeni rimasti in Romania dopo il drammatico loro esodo, rispetto a quella di chi capitò altrove, l’Italia compresa, hanno però qualcosa in comune: l’ambiente familiare in cui si formarono non dimentico dell’appartenenza etnica e delle tradizioni. La loro giovinezza fu cullata negli aromi dei famosi dolci orientali (giovinezza agiata, in occidente, per l’una, ai limiti della povertà, sotto la dittatura proletaria, per l’altro), ma anche imbevuta delle terribili storie racimolate da parenti e conoscenti reduci dalle stragi subite prima della loro nascita; Antonia Arslan nacque a Padova nel 1938, Vosganian nella città di Craiova nel 1957. L’età matura spinse tanto l’una (laureata in archeologia, quindi professore ordinario di letteratura moderna e contemporanea italiana) quanto l’altro (economista, matematico, poeta, prosatore e, ultimamente, purtroppo, anche politico) ad una altrettanto impegnata documentazione. Ne risultarono finora tre romanzi storici che potrebbero diventare opere identitarie per gli armeni, come osservava lo studioso romeno Eugen Negrici a proposito del Libro dei sussurri.
Ripercorrere la storia degli armeni a partire da spunti autobiografici
Come precisò ripetutamente Vosganian, il titolo del suo romanzo fa palese la propria fonte: le memorie evocate sottovoce dai nonni e dai loro amici, memorie introiettate sin dai primi anni di vita al punto di diventare vibrante materia poetica. Le stesse evocazioni e cenni fatti a bassa voce dagli armeni sparsi su tutti i continenti, a lungo increduli e disorientati dalla mancanza di reazione degli Stati di fronte alla loro sorte, come dichiarava anche Antonia Arslan in un’intervista. Evocazioni e cenni proferiti con un semitono ancor più basso nella Romania socialista, per paura di possibili delazioni, quindi di rinnovate repressioni da parte delle malintenzionate autorità.
Il discorso in prima persona nel Libro dei sussurri riporta la voce narrante all’autore stesso (all’anagrafe Varujan Vosganian), nipote di Garabet Vosganian e di Setrak, discendente di Melik, l’antico fondatore della località di Zakar.
La vocazione di affabulatore dello scrittore, vero rapsodo della sua gente, dà alle vicende realmente accadute e da lui riportate un alone di leggenda che salva le pagine dalle forzature dei libri di finzione nei quali la parte riconducibile a fonti attestate e orali non diventa tutt’uno col tessuto immaginativo. La precisione delle parti derivate da fonti storiche attendibili subentra a quadri e scene di indubbia forza epica.
Il merito va sottolineato in quanto dalle vicende centrali si risale, tramite flashback o, al contrario, tramite prolessi, ad altre, di modo che, zigzagando da secolo a secolo, da una terra all’altra, viene ripercorsa la storia degli armeni, non solamente di quella percentuale di loro approdata sui territori romeni.
La trama prende lo spunto, autobiograficamente, dal filo genealogico dei Vosganian e dei Setrak, intrecciato alle vicende di moltissimi altri, vicende condizionate dalla dinamica della situazione politica e amministrativa. Vi sono inseriti in una tonalità squisitamente lirica i ricordi del narrante, anche se a intervalli si ripete che lui fa solo le veci di portavoce di coloro che hanno subito la storia prima della sua nascita e durante i suoi primi anni di vita. Le ricorrenti analessi e anticipazioni incastrano racconti nel racconto, introducendo tasselli che, collocati al punto giusto, creano un immenso panorama nel quale non mancano le puntualizzazioni e la messa a fuoco.
Vi contribuiscono anche alcuni medaglioni memorabili: di combattenti del gruppo Nemesis e del loro capo, o, per dare, a caso, un secondo esempio, della madre che vendette nel deserto il figlio, per sottrarlo all’esiziale epidemia durante la marcia obbligata, ma anche per avere in cambio un sacchetto di farina con cui sfamare la figlioletta moribonda.
Il carosello di episodi e la marea di personaggi non danneggiano l’immagine d’insieme perché la struttura portante del grosso tomo è ben calibrata; a volte, grazie a brevi frasi riepilogative che connettono le storie individuali o collettive verificatesi a grandi distanze temporali e geografiche. Come, ad esempio, nel paragrafo che comincia con l’inquietante, presaga frase, Cosa succederà? Così si domandava la comunità armena nel 1945, all’avvento in Romania del governo imposto dai sovietici, così come – sta scritto – si saranno domandati i bisnonni e i nonni in Anatolia nel 1895, quando furono assaliti dalla plebaglia turca e, non diversamente, nel 1915 all’iniziò del genocidio.
Nella medesima maniera riassuntiva viene fatta la presentazione del titubante, doloroso iter della politica delle alleanze politiche e militari. La Legione Armena, per esempio, secondo Varujan Vosganian, benché creata in Germania, sotto il comando di ufficiali tedeschi, non andrebbe considerata un’emanazione della Wehrmacht, ma piuttosto la via obbligata per provare almeno a fronteggiare la Russia sovietica, il più pericoloso nemico degli armeni in quel giro di tempo. L’ardua loro impresa bellica, cui prese parte anche il gruppo di volontari addestrati nel bosco di Strejnic, nei pressi della città di Ploieşti, non ebbe prigionieri, né feriti; solo morti, perché vennero fucilati tutti quanti mentre si paracadutavano dietro la linea del fronte.
Figure di spicco nella folla di personaggi
Ma chi fa le veci di protagonista nella folla di personaggi? A volte la Storia, con S maiuscola, ma più spesso quella minore (nel senso dato dall’universitario Ginzburg), cioè della quotidianità grezza, rivisitata coi loro squarci di racconti dai sopravvissuti conosciuti dall’aedo contemporaneo. La Storia fa da cornice e traccia cronotopi e fornisce informazioni su ordinamenti politici, relazioni internazionali, governi, parlamenti o partiti, guerre, efferati massacri, emigrazione, infine sulla condizione degli apolidi prima di ottenere la cittadinanza degli Stati ospitanti.
Nella carrellata di situazioni prevalgono a tratti quelle che riguardano gli armeni in transito per la Romania o ivi stabiliti quando il governo di Bratianu – il primo in Europa – li accolse dopo la prima guerra mondiale. È ciò che Antonia Arslan me lo dava per inteso dopo una settantina d’anni dall’accaduto. Lo ha debitamente presente anche Vosganian, ma, a differenza di lei, è a conoscenza anche delle non poche difficoltà quotidiane che accompagnarono i decenni di attesa prima che i suoi ottenessero l’ambita cittadinanza romena, grazie alla quale diventavano superflui i penosi, mortificanti sotterfugi praticati per poter commerciare, mettere su un affare, intraprendere in proprio un’attività economica o di un’altra specie. E sa fin troppo bene quante furono le ingiustizie subite e le tribolazioni dovute al cambiamento di regime politico in Romania che colpì duramente dalla fine degli anni quaranta in poi anche gli armeni con le nazionalizzazioni, gli sfratti dalle proprie case, i cinici, beffardi raggiri staliniani (per fargli rientrare nella Repubblica Sovietica Armenia, quindi imprigionarli), e, non in ultimo, con le ondate di deportazioni in Siberia ed arresti illegali.
Nel vortice di personaggi spiccano alcune figure centrali nella storia armena. Tra questi, Garo, che aveva obbligato con un gesto disperato le Potenze europee a rinunciare al loro silenzio assassino di fronte al genocidio perpetrato in Turchia, minacciando di dinamitare la Banca della Sublime Porta e far saltare per aria anche non pochi soldi europei. È pure il caso dell’energico, combattivo generale Dro, obbligato a spostarsi dall’Anatolia nell’URSS, in Germania, in Romania, infine, in America per sostenere la causa del proprio popolo. Accanto a loro ci sono molti altri, armeni (persone comuni, eroi meno noti o antieroi, come il frustrato, impietoso agente dei servizi segreti comunisti nel porto di Constanţa), ma, ancor di più, persone di varie nazionalità, persone dabbene accanto a seviziatori o ignobili turchi, curdi, arabi, sovietici, ucraini, romeni.
A turno, alcuni assurgono temporaneamente al ruolo di protagonisti come l’indimenticabile Misak Torlakian, indomito combattente dal momento in cui era stata trucidata la sua famiglia e dato alle fiamme l’intero villaggio, vicino a Trebisonda. Presente su tutti i fronti (dove aveva visto le più belle e le più giovani salme) e in tutte le battaglie, compresa quella per rifare la filiale del partito Dashnac, Misak assistette anche allo sbarco a Constanţa di bambini armeni rimasti allo sbando, portati in Romania per esserci allevati, in seguito ad un’iniziativa caritatevole di una delle congregazioni armene funzionanti all’estero. Lo fece sperando follemente di trovarvi il più piccolo dei suoi fratelli, il cui cavallino di legno, raccolto fra le macerie della loro casa, portava da anni, da un Paese all’altro, con sé.
Non meno patetico appare il console armeno a Bucarest, Harutiun Khântirian, che continuava a spigare la bandiera nazionale e a timbrare diligentemente documenti, anche quando non c’era più lo Stato da rappresentare, quello che lo aveva inviato ufficialmente a Bucarest.
Ma tutti i fili dell’ordito conducono alla figura accentratrice dell’epopea, il nonno Garabet, citato nel motto, presente sin dalle pagine introduttive che preannunciano la scena conclusiva del libro. Hanno un apporto alla coesione, accanto alla struttura circolare dell’opera, i paragrafi sia analettici, sia anticipativi o che fanno ogni tanto il punto su quanto era stato già esposto. Il filo non va perso, ripeteva, per esempio, il favoloso nonno Garabet, amante dei detti gnomici, reso saggio dalle numerose esperienze in terre lontane, uomo tuttofare: tessitore di tappeti orientali (i cui disegni, spiegava al nipotino, racchiudono l’universo visibile ed invisibile), custode dei documenti e della cronistoria del gruppo combattente Nemesis, sagrestano a Focşani, fotografo, pittore, direttore di banda, suonatore solitario (come molti sopravvissuti) che sfogava lo strazio armeno con note musicali ritmate sui sospiri delle coorte di sfollati. Eppure egli perse il filo. Il lettore viene a saperlo all’inizio del romanzo, dove si riferisce che, prima di spirare, Garabet si era rivolto ai familiari con frasi composte di parole acchiappate a idiomi da lui conosciuti: persiano, arabo, turco, russo, armeno. Il suo ultimo, babelico discorso riappare nella sezione conclusiva dell’opera, del quadro col convoglio funebre (che accompagnava il nonno alla tomba, nel 1968), convoglio fermato al passaggio a livello. Quindi, tocca aspettare anche prima della sepoltura al tanto provato Garabet che, poche volte si era affrettato nella vita, dopo esser sfuggito all’olocausto armeno. Ultimamente lo aveva fatto negli anni ’50, sotto la minaccia di un militare sovietico per aver tentato di dare una scatola riempita di scarpe al gruppo di bucarestini destinati alla deportazione. Egli aveva saputo per telefono che un suo parente era stato prelevato dalla polizia in pantofole e, insieme ai correligionari di Focşani, aveva tentato di aiutare le povere vittime. Dopo tali esperienze, da tutti conosciute, non stupisce che la gente schierata alla cantoniera aveva l’impressione di intravedere dietro le finestre dei vagoni i fantasmi di tutti coloro che in precedenza vi erano passati spinti da un destino avverso.
Un sostegno per la coesione della materia proviene anche dal sodalizio, ripetutamente nominato, del nipote (che ora percorre a ritroso le strade del passato) coi nonni Gabaret e Setrak e, tramite loro, con tutti gli altri. La voce interiore del moderno cantastorie è la loro voce, identica a quella trasmessa da generazioni. È il dono dei defunti che spinge l’erede a bisbigliare nel primo decennio del terzo millennio i vocaboli appresi che riecheggiavano il rumoreggiare degli accampamenti dell’orrore e a raffigurarsi gli sguardi vuoti o strani degli antenati sul punto di uscire di mente.
Il valore simbolico degli oggetti
Varujan Vosganian sfoggia pure oggetti con virtualità accentratrici. È evidente il valore simbolico, quasi statuario, assunto da ognuno di essi, intimamente legato ad una storia emblematica. È il caso delle spezie, dei dolci, a partire dalla pahlava (o baclava) che mette in ombra la vecchia, proustiana madeleine; non diversamente in ciò che riguarda il caffè preparato ritualmente nelle lunghe visite immancabili nelle evocazioni armene, perché immancabili lo erano e continuano ad esserlo. Si aggiungono il noce (vecchio angelo, primo maestro nell’infanzia), le foto di famiglia prima della diaspora, l’albo di francobolli (ricevuti da tutte le parti del mondo, mai dai territori natii d’una volta), testimoni muti eppure implacabili della dispersione di un popolo, le antiche carte geografiche ben nascoste dagli ex combattenti, il quaderno di “Nemesis”, legato con uno spago, scritto in codice e completato dopo la seconda guerra mondiale dal nonno con segni che corrispondevano a mere deduzioni tutte le volte che dall’America arrivava, in un pacco senza mittente, senza una riga, un cavallino di legno simile a quello dello scomparso fratellino di Misak. È anche il caso del monumento funebre vuoto, nel cimitero di Focşani, allestito a memoria di un benefattore, ritrovo clandestino sicuro negli anni della dittatura comunista; oppure del testamento gelosamente custodito dal vecchio armeno, ex re dello zucchero in Romania, anche quando il nuovo regime si era appropriato la sua cospicua ricchezza e lo aveva gettato sul lastrico, obbligandolo in tardissima età a inventarsi un misero commercio con semi di girasole venduti in squallide osterie.
Ognuno di questi oggetti illumina una vicenda, una circostanza, una individualità, senza caricare i toni, senza ridondanze nostalgiche, senza esasperare la retorica del dolore. Da narratore agguerrito del secondo Novecento, pudico di fronte ai drammi dell’umanità, ma anche da armeno assuefatto alla misura, alla ponderatezza, Varujan Vosganian non fa leva su modi di dire commoventi; neanche nella descrizione del viaggio che portò allo sterminio attraverso dieci cerchi, come li chiama, forse a ricordo dell’inferno dantesco. Lascia che il denotativo parli da sé, dia risalto all’insopportabile contingente. Dal nord, dal Mar Nero, dall’ovest, dall’Anatolia, dall’est, dalla Russia, i più resistenti dovendo percorrere anche un migliaio di chilometri, col sole cocente, tempestati da piogge, venti o neve, donne, bambini (i maschietti vestiti da femminucce), vecchi sono stati spinti verso Alep, in Siria, o nel deserto della Mesopotamia.
Il sentimento tragico della storia soggiacente alle pagine in discussione è sorretto dal tono accorato di chi sente il dovere di non lasciar cadere nell’oblio cose strazianti, senza però cedere all’odio o a sentimenti vendicativi. L’esortazione implicita – perché ce n’è – invita alla meditazione sui veri valori esistenziali. I vecchi dell’infanzia di Vosganian non lacrimavano, ma raramente abbozzavano un sorriso; la sua memoria affettiva li ha conservati così, ma anche con un forte attaccamento alla vita. Perciò vari personaggi del romanzo anche lo dichiarano chiaro e tondo, come il nonno Setrak, quando il discorso era caduto sui giorni quando egli, adolescente, aveva visto come il capo dei giannizzeri aveva mozzato la testa di suo fratello e aveva pianto in riva all’Eufrate con le acque ingrossate, come il Tigri, dal sangue e dai cadaveri galleggianti. Dopo decenni, alla domanda, come mai in quei momenti non aveva buttato il fez offerto spontaneamente da conoscenti turchi, persone perbene, affinché passasse inosservato e non mettesse a repentaglio la vita, rispose al nipote: Che ne sai tu? Dovevo pur vivere.
Non deve stupire allora il commento di un armeno italiano, che ebbe la gentilezza di assistere alla conferenza dedicata al Libro dei sussurri nel marzo scorso, che feci all’Università degli Studi di Milano: ad onta di tutto, eccoci, ci siamo e andiamo avanti. Quindi sarebbe stato indovinato anche un altro titolo cui aveva pensato Varujan Vosganian: Il libro della guarigione. Guarigione coi sussurri di un racconto salvifico, realista, non fiabesco, come quello prolungato per mille e una notte da Sherazad. Guarigione con un sussurrio liberatorio che mette il cuore in pace, non con il pianto, come proponeva nel Libro dei Lamenti il teologo, poeta e pensatore Gregorio di Narek (Grigor Naregatsi), con cui, velatamente, l’armeno odierno entra in dialogo dopo mille anni.
Doina Condrea Derer
(n. 1, gennaio 2012, anno II)
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